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PERCHÈ HO DECISO DI UTILIZZARE I LIEVITI INDIGENI NELL’ASOLO PROSECCO DOCG

Lorenzo Palla, produttore di Asolo Prosecco Docg, spiega perchè ha deciso di utilizzare solo lieviti indigeni.
        
Com’è nata l’idea di utilizzare solo lieviti indigeni ?
Il progetto di migliorare la percezione del nostro vino è nato ormai più di 5 anni fa quando, supportati da un laboratorio di ricerca all’avanguardia nel settore, abbiamo iniziato uno studio sulle capacità e caratteristiche dei lieviti che si sviluppano naturalmente sulle uve in vigneto. Abbiamo quindi effettuato numerosi campionamenti, sia dell’uva che del prodotto fermentato, giungendo alla fine a selezionare un lievito dell’Asolo Prosecco. Così, nel corso degli anni, abbiamo messo a punto il nostro lievito ed ora possiamo considerarlo come uno degli elementi naturali che riescono a far realmente esprimere il vero carattere delle nostre uve e l’unicità del nostro territorio.

I lieviti selezionati, quelli industriali, garantiscono una qualità costante al vino?
Si, i lieviti selezionati dall’industria fanno un ottimo lavoro, ma purtroppo creano sempre una certa gamma di aromi definiti, che ormai noi riconosciamo anche come tipici di un certo prodotto ma purtroppo non hanno nulla di tipico, sono semplicemente un’omologazione del gusto. Invece, con l’utilizzo dei lieviti indigeni inizi a scostarti, ad aprire delle strade inconsuete e cominci a scoprire delle sensazioni affascinanti che non si è più abituati a percepire. Per noi lascia molto più integro il vero patrimonio gustativo del vitigno. Molto spesso oggi assaggi dei vini che non hanno più una connotazione territoriale ma sono fortemente connotati dalla metodologia di produzione. Quando non è più la vera connotazione della varietà quella che senti, ma è una nota data dal lievito utilizzato, c’è il rischio di appiattire l’espressione del vino e del territorio di provenienza.

I lieviti selezionati danno maggiore finezza e stabilità al vino?   
A mio avviso no, però noi siamo ancora molto avvezzi a valutare la finezza con parametri frutto di una standardizzazione del gusto. Ad esempio, si è abituati che il Prosecco deve avere sempre quella precisa nota, ma quando lasci spazio ai lieviti indigeni scopri che le vere note aromatiche sono molto più varie e quindi aiutano maggiormente a rispettare le autentiche caratteristiche del vitigno e del territorio.

Quali sono gli accorgimenti in produzione della Loredan Gasparini rispetto agli altri produttori?
Noi crediamo nell’Asolo fin dalle origini, tanto che abbiamo imbottigliato la prima bottiglia della Docg, quando ancora in pochi credevano alle potenzialità delle nostre colline. Ora abbiamo 3 tipologie di prosecco, che non sono quelle abituali dove cambiano solo gli zuccheri: abbiamo sempre realizzato solo un Brut e poi di recente sono nate due selezioni del tutto originali. Una si chiama Vigna Monti Extra Brut, ed è la selezione della vigna più vecchia che abbiamo in collina, impiantata nel ‘75 a Giavera del Montello. Essendo su di un falso piano a metà collina, è un vigneto che si è arricchito di molte sostanze minerali per effetto del dilavamento, rispetto ad altri che abbiamo sulle rive del Montello. Troviamo sempre che il prodotto ha degli estratti superiori, analizzando il suolo risulta proprio che c’è una maggiore ricchezza rispetto alle altre zone, perciò abbiamo iniziato a tenere queste uve separate, vinificandole da sole. Dopodiché, dalla stessa vigna, abbiamo provato ad effettuare anche una fermentazione spontanea e così è nata un’altra selezione: Cuvée Indigene, che ci è servita poi per riuscire a selezionare un nostro lievito dell’Asolo.
Abbiamo lasciato che una vasca fermentasse per conto suo, in maniera ‘wild’, del tutto spontanea e naturale, in pratica come si faceva una volta. Il problema è che quando si riprendono queste pratiche e magari si usano lieviti selezionati in cantina, non si è mai sicuri che abbia fermentato proprio un lievito  indigeno piuttosto che un lievito usato nella vasca di fianco. Allora, da lì siamo partiti chiedendoci “ma abbiamo fatto una fermentazione spontanea vera e propria o è stata una fermentazione di un lievito che avevamo già usato?” Con analisi approfondite ed il DNA, la ricerca ha dimostrato che c’erano dei lieviti non commerciali, lieviti nostri, in quanto non corrispondevano a lieviti già presenti sul mercato.
La “Cuvée Indigene” è stata la base di partenza che ci ha portati a produrre un Asolo Prosecco Docg più autentico e legato indubbiamente al nostro territorio. Dunque “Cuvée Indigene” è sempre il frutto di una fermentazione spontanea, in quanto non aggiungiamo mai i lieviti. Mentre nell’Asolo Prosecco Docg utilizziamo ora i lieviti indigeni che abbiamo selezionato.

Come distinguere un vino prodotto con lieviti indigeni da quello con lieviti selezionati? Le note caratterizzanti, e poi?
Diciamo che non è per niente facile, forse per un degustatore lo è un po’ di più. Se in batteria si hanno una serie di vini, quelli da lieviti indigeni di solito si riconoscono perché si discostano da quelli che sembrano più “classici”. In questi si trovano delle note che magari non siamo più abituati a ritrovare in tutti i vini di quella tipologia.


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Il Friuli VG di Alessandro Scorsone nell'intervista di Fabiana Romanutti

Pubblichiamo on line l'intervista uscita sul numero di ottobre del mensile qbquantobasta. Rappresentanza e discrezione: così volevamo intitolare l’intervista ad Alessandro Scorsone. Dal titolo di una delle quattro imperdibili mostre (Repräsentation & Bescheidenheit al Museo delle Carrozze imperiali a Vienna, nel centenario della morte dell’imperatore Francesco Giuseppe. Rappresentanza per il suo ruolo di maestro cerimoniere alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Discrezione per quella che è la cifra distintiva di un grande sommelier, capace di richiamare le folle (non solo femminili). E capace di essere se stesso anche quando è in televisione. Poi la conversazione ha preso un’altra piega e il Friuli Venezia Giulia è diventato protagonista. Recentemente Scorsone ha incantato una piazza, la XXIV maggio davanti all’Enoteca di Cormons, in un incontro dove al tavolo più autorevole sul palco non c’era lui ma alcuni vignaioli. L’incanto è nato dall’ambiente e dalla discrezione, appunto, del conduttore
della serata, che ha saputo fare raccontare ai produttori l’anima dei loro vini facendoli entrare nel cuore del pubblico che assaggiava sorsi di vita
vissuta. Un’atmosfera di amicizia e condivisione creata semplicemente e con naturalezza davanti a un calice di vino.


Del tuo conclamato fascino british
non parliamo, lo diamo per
noto e riconosciuto. E poi dovrei
chiederti “british prima o dopo la
brexit”? Parliamo invece del tuo
stile, della tua cortesia…
È solo una questione di rispetto, per
me stesso, per la mia educazione, soprattutto
per le persone che incontro
e- nel caso del vino- per il frutto di un
lavoro che prima di apparire richiede
sacrificio e dedizione.


Negli ultimi anni sei venuto spesso
in Friuli e hai spesso dichiarato
che ami questa regione e i
suoi vini. Che cosa apprezzi della
nostra regione, del suo modo di
vivere e rappresentarsi al mondo
esterno?
Apprezzo moltissimo l'ospitalitá che
trovo in tutte le cantine, adoro ascoltare
i racconti che i vignaioli mi fanno
quando mi spiegano che cosa li ha
portati a fare vino e a farsi conoscere
nel mondo anche se, come comunicatori,
spesso peccano per timidezza.
Se pensiamo che in FVG c'è la
Scuola di Maestri potatori della vigna
Simonit e Sirch, oggi la più apprezzata,
dovremmo forse domandarci il
perché questa notizia sia riservata ai
soli addetti ai lavori e non divulgata,
non dico giornalmente ma almeno
una volta al mese sui canali televisivi
principali. Per fortuna, in molti, hanno potuto
apprezzare la forza e la gioia di
fare rete di Elena Orzan, direttrice
dell'Enoteca di Cormons, che ha
avuto il merito di essere la voce dei
produttori in tutti i luoghi preposti
alla conoscenza e alla divulgazione
della tradizione friulana, andando
oltre la ritrosia e la timidezza degli
attori principali e portandoli alla ribalta
grazie alla sua sapiente regia
organizzativa.


C’è qualche piatto della nostra
regione che è diventato il tuo
piatto del cuore?
In tutto ciò che ti viene proposto
da voi, c'è sempre qualcosa di indimenticabile
a partire da una fetta di
prosciutto di D'Osvaldo per passare
a un assaggio di un Montasio di malga,
senza dimenticare il buon Zoff
che con i suoi formaggi riesce sempre
a lasciarti un ricordo. E senza
tralasciare alcune carni che solo in
certi luoghi hanno un senso... anche
perché, con alcuni Refosco dal peduncolo
rosso, certi piatti trovano
un abbinamento sfiora la perfezione.


Un cuoco o un ristorante che ami
particolarmente?
I miei ristoranti del cuore sono a Cormons,
la “Subida al Cacciatore” di
Josko Sirk e il Giardinetto di Paolo
Zoppolatti, due splendide orgogliose
espressioni di territorio; per poi spingermi
verso Udine, da un altro caro
amico, Emanuele Scarello “Agli Amici”
chiudendo dalla Signora Teresa a
Stregna al “Sale e Pepe”.


Un posto, un luogo che ti hanno
sedotto ed emozionato
Il Friuli Venezia Giulia è una regione
straordinaria, offre tutto ciò che
si possa desiderare, storia infinita,
Aquileia tanto per iniziare, Cividale,
il Carso, per poi passare a paesaggi
unici e indimenticabili, alle valli
del Natisone, che mi hanno colpito
particolarmente, fino a Cormons:
non finisci mai di deliziare gli occhi.
Scoprire che la Scuola di Mosaico
più importante del mondo si trova a
Spilimbergo, mi ha stupito e inorgoglito
nello stesso tempo ma se penso
alle emozioni, ricordo il mio risveglio
presso una delle case integrate nel
bosco in zona Subida, dove alle 6 del
mattino, da una grande finestra, ho
visto una mamma cerbiatta che portava
i suoi piccoli ad abbeverarsi presso
un ruscello. A Roma, certe emozioni
non puoi provarle e io lotto sempre
per le emozioni semplici e pure.


Il tuo vino/vitigno preferito fra
quelli regionali?
Sono particolarmente legato allo
Schioppettino per la sua versatilità,
per i suoi straordinari profumi e
per l'elegante bevibilità. Con grande
orgoglio, lo facemmo assaggiare al
Presidente Putin durante un vertice a
Trieste, ricevendo tanti complimenti
sia alla tavola, rigorosamente regionale,
sia al vino che Putin apprezzò
particolarmente tanto da portarne
via alcune bottiglie per la sua cantina
personale. Anche questo è un modo
di comunicare.


Il boom del Prosecco anche nella
nostra regione come lo giudichi
Il Prosecco è una grande realtà, indiscutibile
a livello numerico, spesso
discutibile in alcuni casi, per quel
che riguarda la qualità. Fare Prosecco
non vuol dire solo fare bollicine
con il Metodo Martinotti, vuol dire
invece raccontare la grande espressività
di un vino che ha permesso a
molti di noi, di approcciare con serenità
a quello che poi, sarebbe diventato
un lavoro o una professione.
Il tutto con un semplice calice, stuzzicante
e piacevole. Al Prosecco dobbiamo
tutti molto: oggi, nelle versioni
Docg e Doc, sta conquistando il
mondo e di questo dobbiamo essere
orgogliosi. I territori di eccellenza,
storici per tradizione, non hanno mai
dimenticato che la diffusione del Prosecco
ha portato benessere e arricchito,
non soltanto economicamente,
tutto l'indotto.


Qualche consiglio ai produttori
della regione
I produttori sono le anime belle del
nostro mondo, sacrificano la loro vita
per donarci, attraverso un calice, la
possibilità di stemperare le fatiche e
le ansie di una giornata di lavoro, ci
alleggeriscono lo stress e ci permettono
di passare serate indimenticabili.
Con i loro racconti conquistano i cuori
e condividendo la loro passione e
follia, diventano parte integrante dei
confronti che gli appassionati del vino
si scambiano continuamente. Non
hanno necessità di consigli: grazie
al loro modo di essere, sono i grandi
divulgatori di un territorio, la storia e
la geografia oggi, spesso si scoprono
grazie all'ospitalitá che loro riservano
ai tanti degustatori erranti.


Ospitalità è la nuova parola d’ordine,
ma la sala, il servizio sono
sempre all’altezza?
Un consiglio? Amate e divulgate la
gioia dell'accoglienza, partite da un
sorriso per poi passare a offrire un calice
di vino. Ma che sia buono, che sia
un vero dono dal cuore non tanto per
fidelizzare ma solo per raccontare la
vostra visione dell'ospitalitá. Dobbiamo
essere fieri di servire, dobbiamo
raccontare ai giovani che il servizio
è un'arte nobile e non deve essere
visto come un lavoro di ripiego bensì
una professione che può dare tante
soddisfazioni.

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Componenti edonistiche della grappa in attesa di Grapperie Aperte

MAGGIORE ATTENZIONE ALLA COMPONENTE EDONISTICA : COSI’ SI DEGUSTA LA GRAPPA ALLA VIGILIA DELLA TREDICESIMA EDIZIONE DI GRAPPERIE APERTE in programma il 2 ottobre 2016 in 28 grapperie di sette regioni italiane.
Intervista al Presidente dell'Istituto Nazionale Grappa Elvio Bonollo.

Presidente Bonollo, come è cambiato in questi tredici anni il rapporto tra consumatori e distillerie?
In positivo, rispetto alla prima edizione il numero dei consumatori che ha preso consapevolezza del mondo affascinante che sta alla base di ogni bottiglia di grappa è aumentato. Se prima c'era la tendenza a scegliere una grappa semplicemente guardandone l'etichetta e considerando il fattore prezzo, oggi si sceglie ponendo molta più attenzione alla componente qualitativa ed all’azienda da cui proviene. Si consuma di meno, ma consapevoli ed informati di cosa si degusta. In questo processo virtuoso va riconosciuto il contributo determinante delle distillerie che si sono evolute valorizzando la presentazione dei propri distillati. Ferma restando la qualità e l’autenticità delle opere d’arte che ciascun distillatore si impegna con passione ad ottenere, le grapperia  hanno scelto di dare sempre più importanza al packaging. In sostanza, la distilleria è più attenta alle richieste del mercato e il consumatore è più attento alle componenti sensoriali, riconoscendo la "sua" grappa più facilmente quando questa si veste con un abito “originale e personalizzato”.

In che modo si sono evoluti il consumo e le tendenze della grappa negli ultimi anni? Che atteggiamento presenta il consumatore nei confronti del bere consapevole?
Per quanto riguarda le tendenze, oggi maggiormente rispetto al passato, si è scelto di privilegiare la qualità rispetto alla quantità. C'è stato un evidente aumento di attenzione alla componente edonistica di questo prodotto per il cui apprezzamento impone un atteggiamento sobrio e un consumo limitato e consapevole della grappa stessa. Oggi, dunque, si sta più attenti ai dettagli e ai legami con il territorio; dal punto di vista sensoriale c'è una predisposizione a preferire grappe intense ma equilibrate con una preferenza crescente nella direzione del segmento delle grappe invecchiate rispetto a quelle giovani.

La grappa viene spesso associata a un consumo dopo i pasti: un consiglio sul momento giusto in cui berla?
Le migliori sfumature del suo carattere si apprezzano al mattino, quando i sensi non sono ancora influenzati da fattori esterni, ma il consumatore tipo preferisce collocarla dopo il pasto perché evoca un momento di convivialità, assenza di frenesia e soprattutto coincidenza con il momento in cui a tavola si serve il dolce, abbinamento perfetto con il distillato di bandiera che quest'anno abbiamo altresì voluto inserire nei palinsesti delle grapperie aderenti a Grapperie Aperte perché si esaltassero a vicenda.

La lista con indirizzi e programmi dettagliati delle 28 Grapperie Aperte domenica 2 ottobre QUI

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Nazario Sauro, il mio nonno eroe

Non è un'intervista, ma questa sezione è perfetta per ospitare l'articolo di Lucia Bellaspiga uscito su Avvenire nel dicembre 2014 con un'intervista a Romano Sauro. Titolo: “Nazario Sauro, il mio nonno eroe”. Il 10 agosto 2016 sono stati cent'anni dalla morte per impiccagione del marinaio figlio d'Istria, eroe d'Italia, come si legge nell'immagine del monumento a lui dedicato sulle Rive di Trieste davanti alla Stazione Marittima.

Una piazza Nazario Sauro l’abbiamo attraversata tutti nella vita: non c’è praticamente città italiana che non gliene abbia dedicata una, in buona compagnia con 40 scuole che portano il suo nome, oltre a caserme, navi, aerei, sommergibili... Ma per i più giovani Nazario Sauro rischia di restare questo, un grande nome, studiato sui libri di storia e cantato in una strofa del Piave, al quale però ben si adatta il quesito manzoniano: chi era costui? Almeno finché non spunta un altro Sauro, nipote del primo, che sui banchi di scuola semmai ha avuto il problema inverso, e cioè ammettere a chi scherzava su quella omonimia che «sì, Nazario è mio nonno, il padre di mio padre».

Nome pesante da portare, specie per chi come Romano Sauro, nato in Trentino nel 1952 ma cresciuto a Roma ed entrato all’Accademia Navale di Livorno, ha a sua volta percorso una fulgida carriera sui mari del mondo col grado di ammiraglio. Invece è proprio lui a smentirci: «Pesante? Niente affatto: io da ragazzo lo consideravo un mito, ma perché non andava bene a scuola! Lo prendevo ad esempio quando mio padre mi castigava per i voti”.

Un giorno Nazario Sauro marinò le lezioni e scappò su una vela a due alberi per raggiungere il padre marinaio a Capodistria. In casa nostra tutto parlava di lui come eroe risorgimentale, le foto, i quadri alle pareti e sul soffitto la bandiera sabauda che aveva avvolto la sua bara nel 1919 quando era stato riesumato, ma per me era l’eroe che allo studio preferiva l’avventura».

Oggi al famoso nonno ha dedicato 478 pagine avvincenti come un romanzo – Nazario Sauro, storia di un marinaio (La Musa Talìa, 28 euro) – scritto a quattro mani con il giovane figlio Francesco. Ed è lì che l’eroe dell’irredentismo, simbolo assoluto di italianità, spirito indipendente e ribelle fino al sacrificio della vita, impiccato dagli austro-ungarici a soli 36 anni, si spoglia di ogni incrostazione retorica e diventa una persona viva, con pregi e difetti, improvvisamente vicina a noi.

Nato a Capodistria nel 1880, nel breve interregno in cui l’Istria era sottomessa agli austriaci, il giovane Nazario entrò già in vita nell’immaginario collettivo degli italiani, ribelli al giogo asburgico, ma anche degli stessi austriaci, che lo considerarono il ricercato numero uno: per non combattere la prima guerra mondiale con la divisa austriaca e contro i suoi compatrioti italiani, raggiunse in modo rocambolesco Venezia e da quel momento ai loro occhi fu un traditore. Temuto per la conoscenza capillare delle coste e dei fondali istriani e dalmati, Sauro divenne il loro incubo: la sua figura imprendibile, avvolta nell’ampio tabarro nero, incombette ancora di più in seguito alle azioni tanto leste quanto astute con le quali addirittura ridicolizzò le difese asburgiche.

Avvenne ad esempio il 12 giugno 1916 durante la famosa «beffa di Parenzo», quando Sauro condusse bellamente il cacciatorpediniere Zeffiro nel porto della cittadina istriana occupata dagli austriaci, sventolando non una ma due bandiere della Regia Marina Italiana. Un’azione talmente temeraria che le tre sentinelle asburgiche non credettero (letteralmente) a ciò che vedevano e lo aiutarono nelle manovre di ormeggio obbedendo ai suoi ordini gridati in dialetto istro-veneto (la lingua con cui anche gli austriaci si esprimevano, in terre che per secoli erano state Repubblica di San Marco).

Le povere sentinelle furono costrette a rivelare il luogo in cui erano nascosti gli idrovolanti che ogni giorno sganciavano il loro carico di morte su Venezia e «nemmeno un minuto dopo la confessione, i cannoni italiani già stavano bombardando gli aerei – scrive il nipote –. Sauro distribuì alla gente che intanto si era radunata nel porto copie di giornali italiani che annunciavano le nostre vittorie sul mare e sugli altipiani trentini».

Le sue imprese divennero subito leggendarie e il suo spirito indomabile accese gli animi di tanti irredentisti pronti a seguirlo. L’amore per l’Italia, però, lo portò anche a missioni umanitarie ante litteram insieme ad altri esuli irredenti, come nel gennaio del 1915, quando un devastante terremoto in Abruzzo uccise 30mila persone e sbriciolò i paesi: «Rispecchia il suo considerare tutti gli italiani suoi fratelli – dice il nipote –, ma anche lo spirito di solidarietà che aveva verso tutte le persone deboli». Una curiosità: insieme a Sauro partì per l’Abruzzo un gruppo di irredentisti istriani e trentini tra i quali Antonio Bergamas (che poi sarebbe caduto sulle Alpi in combattimento), figlio di Maria Bergamas, la «madre di tutte le madri», la donna che al termine della guerra sceglierà la salma del Milite ignoto.

Romano non ha mai incontrato suo nonno, morto impiccato a Pola il 10 agosto 1916, solo due anni prima del ritorno della città agli italiani, ma ricorda bene «nonna Nina, sua moglie, morta quando avevo 7 anni» e il velo di tristezza che sempre aveva sul volto. L’impronta di Nazario resta nella vita dei Sauro, non a caso tutti uomini di mare, e «la sua storia è scritta nei nomi che tutti noi portiamo – sorride Romano –. I cinque figli di Nazario e Nina si chiamavano Nino in memoria di Bixio, Anita per la moglie di Garibaldi, Libero che era mio padre, Italo, e infine la più piccola era zia Albania, in onore di una nazione che come l’Italia combatteva per l’indipendenza: ai patrioti albanesi mio nonno mandò aiuti e armi contro l’occupatore ottomano». Una tradizione, quella dei nomi patriottici, che poi Libero ha continuato con Romano e i suoi fratelli: Adria in onore del loro amato mare, Dalmazio e Giuliana per le terre giuliano-dalmate, Marco per la Repubblica Serenissima e appunto Romano, come l’arena di Pola.

Quella Pola in cui a 36 anni Nazario fu però impiccato, dopo la drammatica cattura allo scoglio della Giliola il 31 luglio 1916, l’ultima delle sue beffe all’impero austroungarico, finita male. Fu un’esecuzione ad alta tensione, con gli austriaci ansiosi di porre fine a quella vita pericolosa e Sauro che pretese di salire sul patibolo indossando il berretto da ufficiale della Regia Marina italiana. I verbali del processo riportati nel libro di Romano Sauro ridanno pathos a un episodio che abbiamo studiato a scuola, quello della madre che, nel tentativo di salvargli la vita, negò invano che quell’uomo fosse suo figlio. Sono scomparsi da poco gli ultimi testimoni lo ricordavano mentre urlava più volte «Viva l’Italia» finché il cappio non si strinse.

Anche la sua salma era «pericolosa», tant’è che fu seppellita di nascosto la notte stessa in luogo sconsacrato, ma una ragazza italiana di Pola vide la scena e riferì il luogo dell’inumazione, da quel giorno cosparso di fiori nonostante i divieti asburgici. Non appena Pola tornò italiana, la salma ebbe alta sepoltura nel cimitero di Marina, avvolta nel Tricolore e tra ali di folla. La stessa folla che trent’anni più tardi, il 7 marzo 1947, fuggendo l’orrore delle foibe, lascerà al nuovo occupatore jugoslavo ogni bene ma non quella salma, imbarcata con gli esuli sulla nave «Toscana».

Già un anno prima della cattura, Nazario aveva scritto due lettere nel caso «il destino non mi concedesse di assistere al dissolvimento dell’Austria e alla sospirata liberazione dell’Istria mia». Alla moglie per chiederle «perdono per averti lasciato con i nostri 5 bimbi ancora col latte sulle labbra», al primogenito Nino per ricordargli che «Patria è il plurale di padre. Giura, o Nino, che sarete sempre, ovunque e prima di tutto italiani». Furono pubblicate assieme alla notizia della sua impiccagione e accesero l’ultimo atto del Risorgimento.


 




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Intervista a Dario Ermacora, presidente Coldiretti FVG

Dario Ermacora, viticoltore di Ipplis, dove gestisce con il fratello Luciano e con i familiari un’azienda vitivinicola, ha 57 anni, è sposato e ha due figli. Oltre a essere dal 2009 presidente di Coldiretti del FVG, dal 2011 è anche presidente del Consorzio
Agrario del FVG, una fra le prime 50 società della regione. Enzo Cattaruxxi lo ha intervistato per qbquantobasta.


Lei presiede l’organizzazione maggiore del settore, come se la passa l’agricoltura oggi in Friuli Venezia Giulia?

Si potrebbe rispondere con una battuta. L’agroalimentare se la passa bene, le imprese agricole male. L’export dell’agroalimentare è infatti in crescita in tutti i settori, dal vino agli insaccati, dalla pasta ai formaggi. Crescono soprattutto i prodotti a denominazione d’origine ma, nello stesso tempo, i prezzi pagati alle imprese per i prodotti agricoli, dal latte ai seminativi, sono bassissimi, troppo bassi. Al punto che molte aziende, soprattutto quelle in area montana e più deboli, stanno chiudendo. C’è un dato positivo però anche in questo: quelle che resistono crescono e si danno dimensioni più attuali per stare meglio sul mercato. In alcuni settori, come quello della zootecnica da latte, però, se non interveniamo subito, rischiamo una sorta di deforestazione e il punto di non ritorno. Al di sotto di una certa soglia di azienda, il sistema zootecnico rischia di non stare più in piedi. E qui in FVG stiamo assistendo al fatto che sono proprio le aziende più strutturate, quelle che più hanno investito a risentire più pesantemente della crisi: con il prezzo attuale del latte non riescono nemmeno a pagare gli investimenti.

Con un mantra continuo si dice che l’Europa è la nostra opportunità, ma snobba ancora il settore agricolo o vincono le lobby?

L’Europa è come una grande famiglia nella quale però tutti tirano la coperta dalla loro parte. Dipende quindi molto anche da noi riuscire a portare a casa il nostro pezzettino per coprirci. L’agricoltura paga, forse più di altri settori, la fragilità politica italiana: più di 60 governi in 70 anni con un conseguente ricambio di ministri e funzionari a Bruxelles. Altri Paesi, con governi piùstabili, nel frattempo ricercavano e trovavano accordi. Noi per troppo tempo abbiamo litigato come i polli de I Promessi sposi. Non tutti i provvedimenti hanno penalizzato l’Italia. Per anni il sistema delle quote latte ha sostenuto con forza il settore lattiero- caseario: ora che non ci sono più le quote, ne paghiamo le conseguenze. Lo stesso dicasi per le produzioni a denominazione di origine controllata, per le quali l’Italia è leader europeo e che sono alla base dell’export del made in Italy. Mi sento di voler sottolineare la lungimiranza di Coldiretti che,
per prima in Italia e in Europa, ha cominciato a parlare di etichettature trasparenti e di tracciabilità, una linea sindacale prima osteggiata e a volte derisa dalle altre associazioni di categoria, ma ora condivisa anche grazie al grande supporto che i cittadini consumatori ci hanno dato: intravediamo motivi di condivisione con la Francia e con essa stiamo stringendo un’alleanza importante.
Le grandi battaglie di Coldiretti, come l’etichettatura, la tracciabilità, la multifunzionalità delle imprese agricole, l’indicazione dell’origine in etichetta, riconosciuta di recente dal Parlamento europeo, sono oggi concretizzabili proprio grazie al fatto che sono condivise. Fossimo soli a seguirle e a praticarle, saremmo nel deserto. Solo se uniremo le forze con quelle di altri Paesi, delle altre associazioni di agricoltori e delle forze politiche più sensibili potremo pensare di superare la forza delle lobby, ovvero delle grandi multinazionali agroalimentari che non vedono di buon occhio regole ed etichette trasparenti.

In questi tempi di crisi l’innovazione è la parola d’ordine; la nuova frontiera è il biologico o l’Ogm?

La nuova frontiera non può che essere un intelligente ritorno al passato, al rispetto dei terreni, al basso impatto ambientale, alla riscoperta e alla valorizzazione delle antiche produzioni, alla riscoperta dei prodotti del territorio indigeni, nostri, che nessun altro ha. Con questo non intendo un ritorno al passato tout court: vanno riscoperti i prodotti di un tempo con le conoscenze di oggi, con gli strumenti di oggi. In Italia non abbiamo le superfici immense di altri paesi come l’Australia o le due Americhe, per non dire dell’Africa. Abbiamo una superfice fortemente antropizzata, frammentata, differenziata dal punto di vista orografico ma anche delle colture e delle tradizioni agroalimentari. Se mettiamo in competizione un’azienda media di seminativi friulana di 50 ettari con quella Usa che di ettari ne ha migliaia, la guerra è già persa in partenza. Dobbiamo fare cose diverse da quel modello economico, per noi perdente. Il no agli Ogm, oltre alle precauzioni del caso (la scienza non è affatto concorde sulla loro innocuità), è un no a un modello agricolo che ci vede soccombenti, che ci sta strangolando. Non a caso l’export del made in Italy sta crescendo con prodotti certificati, Dop, Doc, Igt. Noi siamo in grado di farli, altri no. Rinunciare a questa fortuna sarebbe un errore storico gravissimo. Non a caso, infine, i Paesi produttori di Ogm stanno diminuendo – e contemporaneamente anche gli ettari coltivati – mentre le coltivazioni biologiche stanno aumentando.

La Regione e il settore agroalimentare: quale rapporto?

Il FVG è ricco di prodotti di grande qualità: inutile ricordare il solito San Daniele o il Montasio, la trota (siamo i primi produttori in Italia); gli asparagi bianchi, i conigli, le carni e gli insaccati, i vini e l’ortofrutta, il latte con i suoi formaggi ma anche i seminativi. Il problema è che per la maggior parte si tratta di produzioni di nicchia che incontrano difficoltà allorquando debbono superare i confini della regione per essere venduti. Le aziende, anche le cooperative, sono generalmente troppo piccole, soprattutto ora che i mercati sempre di più stanno diventando mondiali. Lo stesso vale anche per la trasformazione del mais e della soia in mangimi. Se escludiamo il mangimificio del Consorzio agrario non c’è molto altro. Quindi gran parte dei seminativi va oltre ai confini regionali e torna come mangime, con il risultato che il valore aggiunto non resta in Friuli ma in Veneto. L’attuale Giunta regionale con il nuovo Piano di sviluppo rurale sta cercando di dare delle risposte. Occorre però accelerare la sua applicazione: in Veneto hanno tempi più ristretti. Bene anche il programma di promozione dell’agroalimentare del FVG: chi è stato a Expo ma anche alle ultime edizioni del
Vinitaly, ne ha avuto le prove. Ma serve che la Regione, o un altro ente, faccia da regista. Occorre concentrare gli sforzi e le risorse su alcuni eventi, organizzati da enti anche diversi, ma che non si sovrappongano o si copino.

Dopo tante riflessioni un piatto e un vino preferito per brindare a nuovo traguardi dell’agricoltura regionale?

Prosciutto San Daniele e frico, che sta avendo un successo internazionale crescente, con un buon Friulano. Ci aggiungerei un po’ di radicchio, meglio se dell’orto, raccolto e mangiato subito. Un piatto leggero e intenso, ti soddisfa senza appesantirti.

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Skin Contact

 

La Montecchia di Selvazzano Dentro (PD), uno dei ristoranti Alajmo, ha ospitato la proiezione in anteprima nazionale del documentario 'Skin Contact: Development of an Orange Taste' di Laura Michelon e Mike Hopkins.
Laura Michelon, di origini venete, e Mike Hopkins, hanno raccontato a qbquantobasta la nascita del documentario che parla di vino e di passione.

Da dove è partita l’idea e la voglia di girare un film sugli orange wines?

Mike: Tanti nostri amici ci chiedevano informazioni sugli orange wines, come vengono fatti, cosa sono. Non li capivano. Abbiamo guardato su internet e cercato se c’era qualche video. Non abbiamo trovato niente. Io di professione produco film.  Non c’era niente che spiegasse la storia in modo cinematografico e avvincente. Cosi abbiamo pensato che fosse una buona idea di fare qualcosa, qualcosa che spiegasse alle persone la filosofia e la storia di questi vini. Per noi era molto importante come produttore Josko Gravner, perche è un pioniere nella produzione di questa tipologia. in senso moderno. Lo volevamo intervistare e averlo come personaggio protagonista nel film. Siamo stati fortunati perchè ha accettato di spendere del tempo con noi e di fare il film.

La scelta dei altri due produttori di vini macerati che sono presentati nel film da che cosa è stata motivata?
Laura: Maule, Pico per essere precisi, era il mio primo vino del genere che ho assaggiato nel 2009. Ho assaggiatto tantissimi vini di Garganega, ma mai come questo. Mi sembrava di avere assaggiato la Garganega per la prima volta. Mi sembrava un nuovo metodo di vinificazione, e un nuovo modo di produrre vino. Poi ho scoperto che non era un nuovo metodo, ma una cosa che si fa da tantissimi anni. Così ho deciso che anche lui doveva fare parte del progetto. E abbiamo cominciato da lui, da Angiolino Maule. L'abbiamo intervistato per primo, poi Josko Gravner alla fine Daniele Piccinin. Daniele faceva parte di una trilogia. Sono collegati insieme. Josko ha insegnato Angiolino. Angiolino ha insegnato Daniele. Era perfetto. Tre generazioni di produttori. Volevo fare conoscere a tutti questi tre produttori.
Mike: È un film fatto dal nostro punto di vista, la nostra prospettiva. Personale.

Importante anche la scelta dei 3 produttori di produrre vini da vitigni autoctoni. Cosa ne pensate?
Laura: Si, vero. Il punto è che tutti conoscono il Chardonnay o Sauvignon. Volevo trasmettere il fatto che esistono anche altre 1000 varietà al mondo che dovrebbero conoscere. Volevamo anche educare le persone facendo capire che ci sono altre grandi varietà di uva che sono buone e valide come le varietà che già conoscono .

Il progetto - dall’inizio alla fine. Quanto tempo avete impegnato?
Mike:  Dall’idea a oggi 1 anno. Abbiamo ripreso l’estate scorsa. Ma con il montaggio e le traduzioni in italiano e inglese abbiamo speso parecchie sere e notti.

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Il breve documentario racconta la vinificazione delle regioni caucasiche, quando l'uva in fermentazione veniva lasciata macerare a contatto diretto con le bucce. Questa metodologia, originaria della Georgia, associata alla coltivazione della vite di ispirazione organica e biodinamica, permette di ottenere un vino “ambrato, arancione”.  I tre produttori indipendenti che, contro le logiche del mercato, producono questi vini: Josko Gravner dal Collio friulano, Angiolino Maule da Gambellara, anche fondatore dell'Associazione VinNatur e Daniele Piccinin, viticultore tra Soave e la Lessinia.


La bellissima cornice del ristorante La Montecchia con un menu particolare creato da Max Alajmo in abbinamento ai vini,  piatti curati nei dettagli accompagnati con vini dei produttori presenti alla cena, hanno creato una serata indimenticabile.

 

Orange Wines

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Intervista a Filippo Cogliandro, ambasciatore della ristorazione antiracket

Filippo Cogliandro, ambasciatore della ristorazione antiracketFilippo Cogliandro, ambasciatore della ristorazione antiracket

Filippo Cogliandro, eletto Ambasciatore della Ristorazione Antiracket nel mondo, opera nella difficile realtà calabrese. Fedele alla sua convinzione che “il silenzio uccide”, coglie l’occasione per far conoscere la sua esperienza di imprenditore che si è ribellato alla logica del “pizzo” con Le Cene della Legalità, il suo progetto nato a Firenze nel 2012 per raccontare  con un tour nelle diverse città italiane e all’estero il suo lavoro di chef abbinato alla cucina del territorio ospite. La cucina  serve da pretesto e da tema per celebrare uno scambio di emozioni e di conoscenze, una rete sociale per raccontare  alla gente la sua storia, un modo di incontrarsi per scrivere insieme la nuova pagina di una storia comune.

Filippo, chi è lo chef Filippo Cogliandro?
A volte io dico “chef per caso” perché, come diceva Guy De Maupassant “solo gli imbecilli non sono ghiotti… si è ghiotti come poeti, si è ghiotti come artisti” e io volevo essere un artista, ma evidentemente non avevo l’ispirazione; oggi mi posso definire un uomo “libero” con la passione della cucina.

Cosa ci racconta la tua cucina?
La mia cucina è il mio mare, la mia terra, i ricordi, la mia vita….sono convinto che la cucina è un insieme armonioso di emozioni e ricordi, volontà e creatività, passione e sacrificio, un lavoro che scegli, ma forse ti sceglie…

Come sono nate le “Cene della Legalità” ?
Sono nate per caso, un giorno sono stato contattato da una giornalista  fiorentina, per una intervista sugli accadimenti, sia a me che a mio padre, la richiesta del pizzo, il rifiuto alla scorta, l’amicizia e il sostegno di don Ciotti. Si è stabilito fra noi un rapporto di stima; in seguito ci siamo sentiti e, parlando, ci è venuta l’idea delle Cene della Legalità per portarle in tutta l’Italia e raccontare la mia storia e perché, attraverso la cucina, si diffonda il messaggio della legalità, sia agli intervenuti che agli allievi delle Scuole Alberghiere che formano la mia brigata come stagisti.  Il progetto è stato registrato a nostro nome e lo stiamo portando sia in Italia che in Europa; come Fondatore del Progetto sono stato invitato nei festeggiamenti dei 25 anni del settimanale Panorama per un tour – Panorami d’Italia - iniziato proprio da Reggio Calabria. Oggi, a seguito del mio impegno sono stato nominato Ambasciatore della Ristorazione Antiracket nel mondo. Il mio desiderio è parlare, segnalare, far sapere, infatti ogni mia intervista termina con la mia frase "il silenzio uccide".

La tua cucina è tradizione o sperimentazione?
La tradizione dai i miei ricordi, la sperimentazione dal mio mare: il mare della Calabria è il mio elemento, io sono nato sul mare e al mare rubo l’ispirazione, la creatività che mi viene dal pescato giornaliero al mercato, gli abbinamenti con le verdure stagionali, il pesce “povero” arricchito dalla mia fantasia. Nella mia cucina ci sono il colore e i profumi della mia amata Calabria.

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Una polenta da Oscar con Dante Spinotti

Dante Spinotti, residente a Los Angeles, torna spesso nella sua amata Carnia (è originario di Muina, frazione di Ovaro). Spinotti sfonda nel cinema statunitense firmando la fotografia di L’ultimo dei Mohicani (1992) di Mann, Nell (1994) di Michael Apted, Pronti a morire di Sam Raini (1995), Bandits (2001) di Barry Levinson. Sua la fotografia di La leggenda del Santo Bevitore (1988) e Il segreto del bosco vecchio (1993) di Olmi, Una vita scellerata (1990) di Battiato, L’uomo delle stelle (1995) di Giuseppe Tornatore, Pinocchio (2002) di Roberto Benigni.

Lo abbiamo intervistato per qbquantobasta, ospite della Tenuta Conte Romano a Manzano, mentre per l’occasione, il padrone di casa Pietro, coadiuvato dal figlio Augusto, prepara la
polenta con maestria carnica, con il paiolo sul fuoco del caminetto.

Qual è stata la dote più importante che ha saputo far fruttare per il suo talento?
Tanta casualità, creatività, qualche fortunata coincidenza. Ma anche passione e costanza. A scuola avevo 8 in disegno ed ero molto bravo a trattare le ombre e le luci.

Come è nato il suo amore per la fotografia?
Fu mia madre a regalarmi la prima macchina fotografica. Da piccolo ero la disperazione dei miei genitori che mi mandarono in Africa dallo zio che in Kenya realizzava cinegiornali per la BBC. Entrai così nel mondo degli adulti. Questa passione per la fotografia mi portò, tramite Mario Rigoni Stern, a lavorare a Milano per la RAI. A tempo determinato però, come assistente operatore per gli sceneggiati da La freccia nera di Anton Giulio Majano a Camilla con Giulietta Masiero, della quale conservo ancora una foto. Ho lavorato anche per documentari culturali, ricordo per esempio Parlare, leggere, scrivere (1973), una storia sceneggiata della lingua italiana raccontata da Tullio De Mauro, Umberto Eco e Piero Nelli.
Gli esordi nel cinema?
Feci il mio esordio nel cinema come direttore di fotografia ne Il minestrone (1980) di Sergio Citti. A Roma mi chiamavano “il milanese”. Divenni libero professionista grazie al produttore Dino De Laurentiis.
Fino ad arrivare all’Oscar alla carriera…
Un omaggio dei colleghi direttori di fotografia, come lo è il premio ricevuto anche in Polonia e in Macedonia.

Cinema italiano o americano? In America la sceneggiatura è molto importante, solo se è valida viene prodotto un film. Anche la formazione e la scuola occupano un posto di rilievo. Il cinema è idee, senza idee non c’è film. Non hanno mai dimenticato di dialogare con il pubblico: questo è il loro segreto. In Italia il problema è che le raccomandazioni hanno rovinato le capacità degli operatori cineasti e le competenze professionali.

Fra le star di Hollywood chi le ha insegnato qualcosa di importante?
Sicuramente Michael Mann, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense: un genio con il quale mi piace confrontarmi e che mi ha fornito l’opportunità di crescere in una buona palestra professionale. Il mio esordio nel cinema statunitense avvenne proprio con la fotografia nel film L’ultimo dei Mohicani (1992) di Mann.

Che cosa significa per lei mantenere le radici carniche? E quali di queste radici ha potuto o voluto trapiantare in California?
Nel salotto di casa mia a Los Angeles e anche nelle altre stanze ci sono fotografie della casa di Muina e del paesaggio carnico. Tornando dalla Carnia porto sempre la farina per la polenta. Anche questa volta sono pronti i pacchetti sottovuoto – anche se mi appesantiscono la valigia – di una selezione speciale del mugnaio Firmino di Illegio.
A casa sua passano tanti amici importanti: hanno modo di assaggiare la sua polenta?
Chi collabora per i film per i quali lavoro conosce la mia polenta che preparo molto volentieri a casa. Generalmente sono molto curiosi di assaggiarla a seguito dei miei racconti.

La polenta, un piatto povero ma ricco di valori e di simboli...
Ricordo da bambino, in vacanza in Carnia assieme ai miei cugini, eravamo ospiti per una giornata a pranzo dai vicini di casa per mangiare polenta e frico. Null’altro. Ricordo il calore della stufa, la polenta preparata in maniera magistrale e il frico con le patate. Con il tempo questo incontro è diventato la mia scuola di cucina con la signora Lucia che a 94 anni ancora mi insegnava i suoi segreti.

Che cosa significa per lei e sua moglie la casa di Muina?
Sono le nostre radici, abbiamo la necessità di sentire il passaggio delle stagioni, di rivedere il paesaggio, le montagne. Così ogni Natale ritorno assieme alla mia famiglia in Carnia. Come quando ero piccolo.
Come raffigurerebbe il Friuli di oggi?
Il mio documentario – di 30 anni fa – “La Carnia tace” è ormai uno storico. Due anni fa ho realizzato un’inchiesta che non è attualità, è una realtà in continua evoluzione. A breve uscirà il DVD, grazie alla preziosa collaborazione dell’amico Livio Jacob, direttore della Cineteca del Friuli: un mio contributo per far riflettere e trovare lo spunto per ripartire e valorizzare un territorio che il mondo – se lo conoscesse – potrebbe invidiarci. È necessario proteggere il territorio in continua trasformazione.

La polenta è ormai pronta, mentre degustiamo i vini di casa Romano: Friuli o Napa Valley?
Sicuramente Friuli: non è il caso di discutere, anche se i californiani hanno migliorato molto grazie anche ai consulenti e tecnici italiani. I loro vini sono molto costosi e questa potrebbe essere una opportunità per noi.
Quali sono i piatti che preferisce della cucina americana?
Ci sono molte culture, molte tradizioni diverse…il tacchino nel giorno del Ringraziamento potrebbe rappresentare l’unione di tutti; ma non c’è la nostra raffinatezza, il nostro
gusto e l’apprezzamento italiano per il cibo, anche se la carne è buonissima, straordinaria.
I suoi prossimi impegni di lavoro
Sono in partenza per New York per visionare il montaggio del mio ultimo lavoro, una storia ben scritta della mia carissima amica Trudie Styler, la moglie di Sting, nel suo primo film da regista. In attesa della “luce verde” per un nuovo film a giugno/luglio 2016.

È giunta l’ora di assaggiare questa polenta da Oscar!
Nella foto da sinistra Dante Spinotti, Livio Jacob, in piedi Pietro e Augusto Romano. Augusto, enologo, ci propone con orgoglio i suoi vini dei vigneti che
circondano l’azienda. Anche qui le radici sono importanti, da oltre 80 anni i Romano coltivano le viti e in particolare un grande vitigno a bacca bianca: il Tocai Friulano. Un vino prodotto da viti di oltre 70 anni curate con grande esperienza, che riescono a trasferire nel bicchiere il sapore del Friuli. Ed è proprio con il Tocai di Augusto Romano, che Dante Spinotti
brinda con i lettori di qb.

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Luisella Benedetti, la regina del Lugana

Tre donne unite in una storia di forza, coraggio e passione. Tre generazioni - nonna, mamma e nipote - che, a partire dagli anni ‘70, hanno costruito e fatto crescere Ancilla, al confine fra Veneto e Lombardia, dove nasce un grande bianco: il Lugana Doc. “L'Azienda nasce negli anni '70, quando mia nonna Ancilla comprò i vigneti di Tenuta La Ghidina, in località Lugana di Sirmione, e quelli di Tenuta Cadellora, in comune di Villafranca (VR) racconta Luisella Benedetti. Inizialmente, eravamo solo produttori di uva e io imparai da lei, e da mia mamma Maria Teresa, i primi rudimenti su come gestire una vigna. Nel 2003 io, che avevo fino ad allora lavorato nel mondo della finanza, decisi di cambiare vita”.
Quali i motivi di un così radicale cambiamento?
Ho preso coscienza della mia necessità di produrre qualcosa di concreto. Inoltre, nel 2004 è nato mio figlio Filippo e mi è sembrato naturale che crescesse in un ambiente
basato sui valori sani e realmente importanti. Da ultimo, ma non certo per importanza, sentivo la necessità di dar vita a qualcosa di fortemente legato al lavoro di mia nonna.
Quali sono gli aspetti essenziali della tua attività di vignaiola?
Produciamo solo vini bianchi o rosé – da uve Trebbiano di Lugana, Chardonnay e Pinot nero – e abbiamo iniziato un percorso che ci ha portato a eliminare – da alcuni prodotti – l'uso di solfiti aggiunti.
La tua Azienda è, da sempre, gestita da donne: puoi raccontarci della fondatrice, ovvero di tua nonna Ancilla?
Mia nonna era della classe 1909 e, rimasta vedova nel ‘43, ha sempre mantenuto la famiglia col suo lavoro e le sue capacità. Si può dire che mia nonna sia stata “l'uomo di casa”, un ruolo complesso anche ai nostri giorni ma quasi impensabile negli anni dopo la seconda guerra mondiale e in un contesto agricolo come il nostro. Ha, inoltre, aiutato mia mamma – la sua unica figlia – a crescere sia me sia mia sorella. Insomma, una gran donna alla quale mi ispiro ogni giorno senza ovviamente nulla togliere al fondamentale ruolo di mia mamma, i cui consigli sono
ancora oggi per me di eccezionale importanza. Per noi l'essere un'Azienda familiare vuol dire, soprattutto, condividere i valori e le scelte.
Il Lugana Doc è un vino bianco capace di lunghi invecchiamenti: come si pongono i consumatori taliani di fronte a questo fatto, per noi culturalmente abbastanza inconsueto?
È difficile far comprendere ai consumatori italiani che il Lugana Doc sarebbe da bere come vino d'annata perché, col tempo, sa dare vita a prodotti di grande interesse. In ogni caso, sono stati compiuti degli importanti passi avanti nella comunicazione e oggi vi è molta curiosità in tal senso. Noi durante le degustazioni pubbliche portiamo sempre le Riserve per mostrare, nel bicchiere, tali capacità di invecchiamento: alcuni nostri vini, infatti, sono messi in commercio dopo 10 anni dalla vendemmia
Quale ritieni essere il tuo vino più rappresentativo?
Per motivi affettivi siamo molto legati alla nostra prima etichetta, ovvero il Lugana Doc Ancilla; commercialmente, grandi soddisfazioni stanno arrivando dal Lugana Doc Ella. Tra i vini prodotti presso Tenuta Cadellora, stiamo ottenendo ottimi risultati da Effe, da uve Chardonnay, e dagli spumanti A, da uve Pinot nero sia in bianco sia in rosa.

l'intervista è stata gentilmente concessa da www.italiadelvino.com

l'articolo si trova anche nel mensile cartaceo qbquantobasta numero di marzo

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Fulvio Lovisa nuovo presidente Cantina Rauscedo

Fulvio Lovisa, neo presdiente della Cantina Rauscedo

Passaggio di consegne a Cantina Rauscedo tra il Presidente uscente Alfredo Bertuzzi che dopo 16 anni di Presidenza lascia la guida dell’azienda a Fulvio Lovisa già collaboratore di Bertuzzi come vice-presidente. Da dodici anni. Lovisa, classe 1970, imprenditore agricolo nel settore vitivinicolo e delle barbatelle, è stato eletto all’unanimità dal Consiglio di Amministrazione.

Quali progetti per il suo nuovo incarico?

Il mio sarà un mandato in continuità con quanto già fatto insieme a Bertuzzi. Lavorerò nell’interesse dei soci puntando alla qualità delle nostre produzioni e quindi dei nostri vini.


Che cosa significa essere presidente di una così grande realtà cooperativa?  

E’ un ruolo carico di responsabilità per la tutela del mondo della cooperazione vitivinicola che rappresenta nella nostra regione un importante tassello nella filiera agroalimentare ma anche
 nella difesa e salvaguardia del territorio. Oltre ad avere un ruolo mirato per la valorizzazione dei piccoli coltivatori.


Il rapporto con i soci è quindi sicuramente in primo piano…

Già da anni si è iniziato a lavorare seguendo ogni singola azienda, sviluppando un rapporto diretto tra Cantina e singolo viticoltore, creando un’intesa condivisa nella lavorazione e gestione dei vigneti, puntando alla qualità delle uve, alla loro sanità ma soprattutto a ottenere, al momento della maturazione, un giusto equilibrio tra aromi, zuccheri e acidità.

Obiettivo principale?

La difesa della qualità. Elemento imprescindibile per essere competitivi sul mercato.

 “Rauscedo, “le radici del vino”. Nomi che portano con sé un’identità…

Identità ma anche dedizione al mondo vivaistico-viticolo, il più grande esempio mondiale di produzione di barbatelle. A Rauscedo si possono raccontare storie di vite lunghe oltre un secolo. E’ proprio per questo che imposto la mia Presidenza ponendomi l’obiettivo di difendere l’identità di un territorio, di una tradizione sinonimo di qualità, in una visione comunque
di sviluppo tecnologico. Senza l’innovazione, non ci potrà essere futuro.

 Ci racconti in sintesi i dati della vostra realtà aziendale

Cantina Rauscedo rappresenta oggi un'eccellenza nel panorama vitivinicolo della Regione essendo il principale produttore di vino. Oggi la Cantina Rauscedo con i suoi 23.4 milioni di euro di fatturato, rappresenta une delle realtà vitivinicole più importanti della Regione FVG, ed è inserita anche nell’elenco delle 500 aziende più importanti del Friuli VG: Fondata nel 1951, quest’anno celebra i 65 anni dalla fondazione.

Quali sono i vini su cui puntate maggiormente?

Puntiamo molto sui vini che rappresentano il territorio, in particolare Ribolla Gialla, Sauvignon, Refosco dal peduncolo rosso, Prosecco extra dry, Friulano e Malvasia dry. E aggiungo che noi al territorio crediamo e dal territorio in cui viviamo e lavoriamo vogliamo farci conoscere sempre meglio.

 

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Dieci domande a Donatella Cinelli Colombini


Lei conduce un’azienda vitivinicola tutta al femminile. Qual è il valore aggiunto che una donna apporta in questo tipo di realtà lavorativa?

Per una donna il talento e la capacità non sono mai date per scontate, vanno sempre dimostrate. Questa situazione dura tutta la vita e vale anche per chi ha raggiunto grandi
risultati. Per questo noi donne ci impegniamo allo spasimo con ritmi di lavoro forsennati su ogni progetto.

Quali sono le parole d’ordine del suo programma per l’associazione Le donne del vino?
“Insieme”.

Che cosa non deve mai mancare come aspirazione o come valore a una donna del vino italiano?
Non deve mai mancare il coraggio di provarci ancora, nonostante le opportunità mancate, le difficoltà, la fatica. Le donne italiane che lavorano nel mondo del vino hanno più talento che
opportunità. Ora bisogna aumentare queste opportunità. Le donne dirigono il 30% delle cantine italiane ma sono quasi assenti nei luoghi in cui vengono prese le decisioni. Le donne
del vino sono mediamente più scolarizzate dei colleghi maschi e spesso hanno ottime competenze nella comunicazione e nel marketing cioè nei comparti in cui la filiera produttiva del vino è più debole. Una maggiore presenza di donne nei punti chiave potrebbe accrescere le prospettive del vino italiano. Non deve mai mancare la condivisione perché chi vince
da sola va poco lontano ma chi cerca di portare avanti tutti costruisce il futuro.

Lei ha viaggiato molto. Qual è l’iniziativa che ha apprezzato in giro per il mondo e che porterebbe in Italia? Sono colpita dal successo dei concorsi
enologici con giuria femminile (Giappone, Francia...). Sono un chiaro indice della nuova importanza delle donne come consumatrici di vino.

Ha ideato “Cantine aperte” e “Calici di stelle”. Quale ora un suo desiderio o progetto per l’enoturismo in Italia?

Parliamo di Donne del vino e non di Turismo del vino. Ovviamente per ora è solo un sogno perché deve essere ancora sottoposto all’approvazione del CDA delle Donne del vino ma era nel programma che ho sottoposto alle socie durante le elezioni e quindi credo di poterne parlare. Io vorrei organizzare un grandissimo evento che si svolga contemporaneamente in tutti i luoghi del vino delle donne d’Italia – cantina, ristoranti, enoteche …- e parli di vino alle donne wine lovers. Una sorta di Festa delle donne del vino da realizzare verso l’8 marzo.

Che cosa manca al vino italiano per essere primo in classifica nel mondo?
L’unità d’intenti e una forte azione di marketing a livello mondiale.

Tre aggettivi per definire il vino italiano
Ottimo, sempre nuovo, legato al territorio.

Cosa è cambiato in Italia dopo l’Expò di Milano nella percezione del mondo del vino?

C’è una maggiore considerazione per il ruolo di locomotore che il vino può svolgere nei confronti di tutto il made in Italy.

Un libro da consigliare a chi si avvicina al mondo del vino.
Più che un libro consiglio di frequentare il primo corso da Sommelier.

Dove trova tutta l’energia per fare tante cose, tutte belle e importanti?

Io ho fantasia, non è un merito, è un dono o meglio una grazia che il Signore mi ha dato e che cerco di mettere al servizio di tutti, in azienda e in altre situazioni. Spero di usarla bene.

Augurandoci di poterci incontrare in Friuli per un brindisi con un nostro vino regionale, Le auguriamo buona strada!

 

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