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#parolegolose. Una rubrica nata durante la quarantina (quarantena) Covid-19, ma covata a lungo, in attesa di esprimersi ed esplodere. PAROLE GOLOSE. PER SAPERNE QUANTOBASTA. Una rubrica che racconta di parole. E che nasce dal successo dell'altra nostra sezione Chiedilo a qb. Domande e curiosità che attirano e coinvolgono i nostri lettori.  Saranno parole e frasi che racconteranno l'etimologia ma anche e soprattutto le origini di piatti, le trasmigrazioni di ingredienti e di vitigni, storie di modi di dire, di consuetudini alimentari. Senza troppe pretese, con la nostra consueta leggerezza. Per saperne quanto basta, appunto. #parolegolose

Dal 2021  la rubrica si arricchisce con le #ricettedaleggere. Ricette di scrittori, preparazioni tratte da libri che parlano di scrittori. Uno spunto per incuriosirvi e invitarvi a scoprire nuovi punti di vista. 

Entrambe le rubriche #parolegolose e #ricettedaleggere sono aperte alle collaborazioni dei nostri lettori.

Segnalateci una parola golosa, indicateci un racconto culinario. L'indirizzo è Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

Tutto quello che volevi sapere sulla maionese...

Tutto quello che volevi sapere sulla maionese e non hai mai chiesto. Come si fa esattamente? Chi l'ha inventata? Che differenza fra la maionese home made e quella acquistata pronta? Perché gli chef la chiamano Mayo? E la maionese vegana come si fa?  Esiste la maionese senza uova? Qual è la maionese più buona al mondo?

(prima puntata) Maionese è una salsa, più precisamente un'emulsione a base di tuorli, olio e aceto o succo di limone. Molti la chiamano Mayo alla francese abbreviando mayonnaise, come si abbrevia in evo l'olio extravergine di oliva. 

maionese in un minuto da fattoincasadabenedettamaionese in un minuto da fattoincasadabenedetta

Maionese è versatile e utilissima in cucina. Sembra (è) facile da fare, ma basta un niente per farla impazzire. E noi con lei. L'impazzimento avviene quando l'olio resta separato dall'uovo. 

Perché la maionese impazzisce? 

La causa sarebbe dovuta al fatto che le uova sono troppo fredde, quindi tiratele fuori dal frigo in anticipo (ma perchè mettete le uova in frigo? non è mica necessario). ìIn genere però impazzisce perchè la quantità di olio è eccessiva e non si sbatte l'emulsione in modo energico, quindi le molecole grasse non si distribuiscono uniformemente tra quelle acquose.

Che fare per porvi rimedio? La mitica Sonia Peronaci suggerisce ciò: in una ciotolina sbatti leggermente un tuorlo a temperatura ambiente (mi raccomando) e, una cucchiaiata alla volta e senza fermarti mai, amalgama la maionese impazzita: voilà, recuperata e buonissima! 

Anche gli esperti di finedininglovers ci danno le loro dritte:  Prendete qualche cucchiaiata della maionese impazzita e mettetela in un’altra ciotola. Sbattetela energicamente con una frusta, aggiungendo lentamente un po’ di acqua o aceto. Mano a mano che il composto si addensa, aggiungete altra maionese impazzita e ripetete l’operazione fino a che tutta la salsa sarà recuperata. Aggiungendo alla maionese troppo liquida una componente acquosa, infatti, si ristabilisce il giusto rapporto con quella oleosa. 

 

Quando nasce la maionese? Chi l'ha inventata? 

 

La storia (o leggenda) francese afferma che fu Luis François Armand de Vignerot du Plessis, duca di Richelieu, a portarla in Francia dopo la vittoriosa battaglia contro gli Inglesei nel 1756 a Mahón (mahonnaise) nell'isola di Minorca. Altre fonti, sempre francese dicono che il riferimento sarebbe invece alla città di Bayonne, nel sud della Francia, altri ancora che il nome deriverebbe dal francese antico moyeau, "tuorlo d’uovo". 

Ma poichè la città di Mahón prenderebbe il suo nome, forse, dal generale cartaginese Magone Barca, fratello di Annibale, potrebbe trattarsi di un antico di un antico condimento punico 😉

(continua) seguici nei prossimi appuntamenti di parole golose per scoprire il resto della storia della maionese.

Ti spoilero solo che la maionese più buona del mondo sarebbe giapponese.  Si chiama Kewpie e la sua ricetta è diventata virale su Tik Tok. kewpiekewpie

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Conosci lo sfincione? Leggi qui, te lo racconta qubì!

Sfincione, ricetta siciliana alta e soffice, pietanza irrinunciabile nel corso delle festività di dicembre. Qualcuno lo definisce una specie “pizza”, ma l'impasto  è diverso, alto, soffice e spugnoso. Il condimento? Pomodoro, acciughe, origano, pangrattato e caciocavallo ragusano. È inserito nella lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT).

Lo sfincione lo si mangia tutto l’anno, ma a cominciare dalla Festa dell’Immacolata, è una vera e propria istituzione prenatalizia. 

 

Perché si chiama così il morbido Sfincione?


Sfincione palermitanoSfincione palermitanoLo Sfincione si chiama così proprio perchè è morbido, il nome deriva dal latino spongia, a sua volta dal greco spòngos, cioè “spugna”; secondo altri deriverebbe dal nome arabo di una dolce frittella al miele. Anche per questo piatto ci si imbatte nelle suore come nel caso di molti altri dolci e piatti del centro sud d'Italia.

Si dice che a inventarlo furono alcune suore del monastero di San Vito a Palermo per creare un piatto diverso dal solito pane di tutti i giorni. Affermano però gli storici che lo  Sfincione di San Vito era molto diverso da quello attuale (e senza pomodoro).

Chistu è sfinciuni. Fattu ra bella vieru. Chi ciavuru. Uora ‘u sfuinnavu. Uora ‘u sfuinnavu. Questo è sfincione. Fatto davvero bene. Che profumo. L’ho sfornato proprio ora. 

sfincione bianco di Bagheria courtesy Siciliafansfincione bianco di Bagheria courtesy Siciliafan

C'è lo sfincione palermitano da carretti di street food e da panificio o rosticceria e poi c'è lo Sfincione Bianco di Bagheria, privo di pomodoro, ma con tuma (formaggio siciliano da latte crudo di pecora tagliato  a fette) e ricotta. Con una lunga bellissima storia che vi racconteremo in un altro appuntamento di #parolegolose. 
Lo sfincione è un antipasto perfetto: si taglia a tocchetti e si spizzulia, cioè si “spizzica”. 

 

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Conosci la Melannurca campana?

mela annurcamela annurca

Conosci la Melannurca? Sai qual è l'origine del suo nome? Te lo raccontro in sintesi. La Melannurca Campana IGP è presente in Campania da almeno due millenni. La sua raffigurazione nei dipinti rinvenuti negli scavi di Ercolano e in particolare nella Casa dei Cervi, testimonia l'antichissimo legame dell'Annurca con il mondo romano e la Campania felix in particolare. Luogo di origine sarebbe l'agro puteolano, come si desume dal Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Proprio per la provenienza da Pozzuoli, dove è presente il lago di Averno, sede degli Inferi, Plinio la chiama Mala Orcula in quanto prodotta intorno all'Orco, neipressi dell'Orco (gli Inferi).

Leggiamo sul sito del Consorzio che Gian Battista della Porta, nel 1583, nel suo Pomarium, nel descrivere le mele che si producono a Pozzuoli cita testualmente: … le mele che da Varrone, Columella e Macrobio sono dette orbiculate, provenienti da Pozzuoli, hanno la buccia rossa, da sembrare macchiate nel sangue e sono dolci di sapore, volgarmente sono chiamate Orcole…. 

Da qui i nomi di "anorcola" e poi "annorcola" utilizzati nei secoli successivi fino a giungere al 1876 quando il nome "Annurca" compare ufficialmente nel Manuale di Arboricoltura di G. A. Pasquale. Tradizionalmente coltivata nell'area flegrea e vesuviana, spesso in aziende di piccola dimensione e talora in promiscuità con ortaggi e altri fruttiferi, la Melannurca Campana ora IGP si è andata diffondendo nel secolo scorso prima nelle aree aversana, maddalonese e beneventana, poi via via nel nocerino, nell'irno, i picentini e infine in tutta l'area dell'alto casertano. 

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MELANNURCA CAMPANA I.G.P.

Descrizione del prodotto

L'Indicazione geografica protetta "Melannurca Campana" si riferisce a una delle varietà italiane di melo più conosciute e più apprezzate in assoluto dai consumatori: l'Annurca. Definita la "regina delle mele", infatti, l'Annurca è da sempre conosciuta soprattutto per la spiccata qualità dei suoi frutti, dalla polpa croccante, compatta, bianca, gradevolmente acidula e succosa, con aroma caratteristico e profumo finissimo, una vera delizia per gli intenditori.

Il frutto è medio-piccolo, di forma appiattita-rotondeggiante, leggermente asimmetrica, con picciolo corto e debole. La buccia, liscia, cerosa, mediamente rugginosa nella cavità peduncolare, è di colore giallo-verde, con striature di rosso su circa il 60-70% della superficie a completa maturazione, percentuale di sovraccolore che raggiunge l'80-90% dopo il periodo di arrossamento a terra.

La "Melannurca Campana" IGP rivendica da sempre virtù salutari: altamente nutritiva per l'alto contenuto in vitamine (B1, B2, PP e C) e minerali (potassio, ferro, fosforo, manganese), ricca di fibre, regola le funzioni intestinali, è diuretica, indicata spesso nelle diete ai malati e in particolare ai diabetici. Anche per l'eccezionale rapporto acidi/zuccheri, le sue qualità organolettiche non trovano riscontro in altre varietà di mele. Una recente ricerca del Dipartimento di scienza degli alimenti dell'Universià di Napoli Federico II ha dimostrato che la mela Annurca dimezza i danni ossidativi alle cellule epiteliali gastriche. La sua azione gastroprotettiva dipende dalla ricchezza in composti fenolici, che sono in grado di prevenire così i danni ossidativi dell'apparato gastrico e aiutando a combattere le malattie legate all'azione di radicali liberi.  

ARROSSAMENTO A TERRA 

mela annurca arrossamento a terra  courtesy foto La frutta di Andreamela annurca arrossamento a terra courtesy foto La frutta di Andrea

Uno degli elementi di tipicità della "Melannurca Campana" IGP è l'arrossamento a terra delle mele nei cosiddetti "melai". Essi sono costituiti da piccoli appezzamenti di terreno, sistemati adeguatamente in modo da evitare ristagni idrici, di larghezza non superiore a metri 1,50 su cui sono stesi strati di materiale soffice vario: un tempo si utilizzava la canapa, oggi sostituita da aghi di pino, trucioli di legna o altro materiale vegetale. Per la protezione dall'eccessivo irraggiamento solare i melai sono protetti da apprestamenti di varia natura.

Durante la permanenza nei melai i frutti sono disposti su file esponendo alla luce la parte meno arrossata, vengono poi periodicamente rigirati e accuratamente scelti, scartando quelli intaccati o marciti. E' proprio questa pratica, volta a completare la maturazione dei frutti adottando metodi tradizionali e procedure effettuate tutte a mano, a esaltare le caratteristiche qualitative della "Melannurca Campana" IGP, conferendogli quei valori di tipicità che nessun altra mela può vantare.

Due gli ecotipi previsti dal disciplinare di produzione, con due distinte indicazioni varietali in etichetta: l' "Annurca" classica e la diretta discendente "Annurca Rossa del Sud", suo mutante naturale, diffuso nell'area di produzione da oltre un ventennio, che ha il pregio di produrre frutti a buccia rossa già sulla pianta.

I frutti di maggior pregio, soprattutto dal punto di vista organolettico, a detta degli esperti sono quelli provenienti da piante innestate su franco, allevate a pieno vento e con scarsi apporti irrigui. Le indubbie caratteristiche organolettiche di questa mela, finora apprezzate soprattutto dai consumatori meridionali, stanno progressivamente conquistando anche altri mercati, grazie anche al riconoscimento del marchio di tutela e all'ingresso nei canali della grande distribuzione organizzata.

Accanto ai succhi, di grande valore nutritivo, ottimi sono anche i liquori ottenuti dalle annurche, così come i dolci (crostate e sfogliatelle su tutti, ma anche le mitiche mele cotte al forno)

Registrazione e tutela

L'Indicazione Geografica Protetta (I.G.P.) "Melannurca Campana" è stata riconosciuta, ai sensi del Reg. CE n. 2081/92, con Regolamento (CE) n. 417/2006 (pubblicato sulla GUCE n. L 72 dell'11 marzo 2006). L'iscrizione al registro nazionale delle denominazioni e delle indicazioni geografiche protette è avvenuta con provvedimento ministeriale del 30.03.06, pubblicato sulla GURI n. 82 del 7.04.04, unitamente al Disciplinare di produzione e alla Scheda riepilogativa (già pubblicata sulla GUCE unitamente al predetto Reg. 417/06).

 
 
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Castradina sciavona a Venezia il 21 novembre

Luca Carlevarijs (Udine 1663 Venezia 1730) Il Ponte votivo per la festività della Madonna della Salute, particolare. 1720 circa. Wadsworth Atheneum Museum of Art Hartford

21 novembre. Ogni anno in questo giorno a Venezia si festeggia mangiando la castradina sc'iavona, un piatto antico a base di carne di montone che risale al 1600. Ma prima di tutto vi chiedo: perchè ho messo come foto di apertura un ponte di legno che ora a Venezia non esiste? IQuesto ponte non esiste, ma ogni anno in occasione della festa di ringraziamento alla Madonna della salute, il 21 novembre appunto, un ponte di legno viene ricostruito. È un ponte votivo, un ponte provvisorio su barche che attraversa il Canal Grande e collega la zona di San Moisè e S. Maria del Giglio (sestiere di San Marco) con la basilica del Longhena (Sestiere di Dorsoduro) per consentire il passaggio della processione.

La peste la chiesa la festa 

Nel lunghissimo periodo di isolamento patito da Venezia durante la peste che colpì tutta Europa e che il Manzoni ricorda nei Promessi Sposi, i Dalmati rifornivano la città con quello che avevano, cioè prevalentemente carne di montone, che diventò ben presto di fatto uno dei pochi cibi reperibili nel territorio.  SIn quegli anni fu fatta costruire  a Venezia una nuova chiesa per ottenere dalla Vergine Maria la cessazione della pestilenza: la Chiesa di Santa Maria della Salute. La Chiesa  sorse nell’area della Punta della Dogana, nei pressi del Bacino di San Marco e del Canal Grande. Progettata da Baldassare Longhena è oggi un simbolo dell’architettura barocca veneziana.

Ogni anno la città di Venezia celebra il 21 novembre la Festa della Madonna della Salute o Festa della Salute. Nelle macellerie veneziane e nei mercati compare la carne di montone per preparare il piatto tipico di questo momento dell’anno: la Castradina. Un piatto a base di cosciotto di montone salato, affumicato e poi stagionato, usato per fare una gustosa zuppa con l’aggiunta di foglie di verza, cipolle e vino.

https://qbquantobasta.it/cibo/21-novembre-a-venezia-e-il-giorno-della-castradina-sciavona

i passa el ponte, i compra la candela,

el santo, el zaletin, la coroncina

e verso mezzodì l’usanza bela

vol che i vaga a magnar la castradina scriveva il poeta veneto Varagnolo.

La riva degli Schiavoni 

La Riva degli Schiavoni era un tempo la porta d’ingresso alla città. Qui c'era lo scalo delle navi mercantili che giungevano in particolare dall’oriente. Un andirivieni incessante di uomini e merci, un groviglio di lingue, abitudini e abiti diversi che scaricavano prodotti, soprattutto alimentari ,oltre a ovini e bovini vivi. Questi animali arrivavano soprattutto dai Balcani e più precisamente dalla  Dalmazia e dall'Albania. Quell'area geografica veniva indicata come Sclavonia: ecco perché quella Riva si chiama “degli Schiavoni”.

Tra le merci primeggiava la carne di montone castrato, messa sotto sale e affumicata: la "Castradina Sciavona", il tipico piatto che si consuma ancora oggi in occasione della Festa della Salute, il 21 di Novembre, festa grande. (fonte: Veneziani a tavola). Una gustosa zuppa con l’aggiunta di foglie di verza, cipolle e vino, un piatto de obligo su le tole, sia dei povaréti che dei siori, nobili o mercanti. Veniva servita molto calda, con il brodo, i pezzi di cosciotto insieme alle verze sofegàe, con una generosa aggiunta di cannella e pepe, in grandi terrine.

E con i fondi tagliati a piccolissimi pezzi, si potevano preparare altre due ricette: i risi rabaltai cola castradina o i risi in cavroman.


castradina di Daniele Zennarocastradina di Daniele Zennaro

RICETTA

La Castradina della tradizione. Qui vi raccontiamo come veniva preparata la Castradina dallo chef Daniele Zennaro (era il 2014) quando lavorava al Vecio Fritolin con la mitica Irina Freguia. 

Ingredienti:

Un pezzo di carne di montone – preferibilmente il cosciotto- salata, affumicata ed essicata

sedano, carote e cipolla, chiodi di garofano, alloro e rosmarino

un cavolo verza 

olio extravergine di oliva sale e pepe

Preparazione


La carne di montone  viene messa in acqua fredda per una settimana. Il bagno d’acqua sarà rinnovato per almeno tre volte per alleggerire il sapore deciso della marinatura e della carne. 

Successivamente il pezzo di carne di montone intero viene cotto sottovuoto a vapore a circa 68 °C. Una volta ultimata la cottura la carne viene lasciata raffreddare e poi tagliata in pezzi.

Le ossa e le parti più grasse vengono messe in acqua con cipolla, carota, sedano, alloro e chiodi di garofano e lsaciate bollire circa due ore per ottenere il brodo.

Intanto tagliate la verza in foglie grandi e fatta stufare con olio extravergine di oliva, cipolla e un mestolo di acqua o di brodo di castradina.

A questo punto la carne in pezzi, il brodo e le verze stufate vengono unite per ultimare la cottura.

Come impiattare: Servire caldissimo, sistemando nel piatto un letto di foglie di verza dove appoggerete i pezzi di castradina e infine coprite con il brodo.

Suggerimento: ultimare il piatto con un ciuffo di rosmarino e una fetta di pane tostato.

Per garantirmi una sicurezza in più vi allego la pagina realtiva alla castradina dell'Accademia Italiana della cucina. castradina sciavona accademia della cucina castradina sciavona accademia della cucina

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La canzone del girarrosto

 

girarrosto camino dei primi '900, in ferro battuto con sistema girevole a carica con motore con molla Museo dello Spiedo collezione Farraboli girarrosto camino dei primi '900, in ferro battuto con sistema girevole a carica con motore con molla Museo dello Spiedo collezione Farraboli

Incominciamo il mese di ottobre con versi antichi che sanno ancora parlare al cuore di chi li legge. È La canzone del girarrosto di Giovanni Pascoli (da Canti di Castelvecchio)

Domenica! il dì che a mattina sorride e sospira al tramonto! . . .

Che ha quella teglia in cucina? che brontola brontola brontola. . . È fuori un frastuono di giuoco, per casa è un sentore di spigo. . . Che ha quella pentola al fuoco ? che sfrigola sfrigola sfrigola. . . E già la massaia ritorna da messa; così come trovasi adorna, s’appressa: la brage qua copre, là desta, passando, frr, come in un volo, spargendo un odore di festa, di nuovo, di tela e giaggiolo. La macchina è in punto; l’agnello nel lungo schidione è già pronto; la teglia è sul chiuso fornello, che brontola brontola brontola. . .

Ed ecco la macchina parte da sè, col suo trepido intrigo: la pentola nera è da parte, che sfrigola sfrigola sfrigola. . . Ed ecco che scende, che sale, che frulla, che va con dondolo eguale di culla. La legna scoppietta; ed un fioco fragore all’orecchio risuona di qualche invitato, che un poco s’è fermo su l’uscio, e ragiona.

È l’ora, in cucina, che troppi due sono, ed un solo non basta: si cuoce, tra murmuri e scoppi, la bionda matassa di pasta. Qua, nella cucina, lo svolo di piccole grida d’impero; là, in sala, il ronzare, ormai solo, d’un ospite molto ciarliero. Avanti i suoi ciocchi, senz’ira nè pena, la docile macchina gira serena, qual docile servo, una volta ch’ha inteso, nè altro bisogna: lavora nel mentre che ascolta, lavora nel mentre che sogna. Va sempre, s’affretta, ch’è l’ora, con una vertigine molle: con qualche suo fremito incuora la pentola grande che bolle.

È l’ora: s’affretta, nè tace, chè sgrida, rimprovera, accusa, col suo ticchettìo pertinace, la teglia che brontola chiusa. Campana lontana si sente sonare. Un’altra con onde più lente, più chiare, risponde. Ed il piccolo schiavo già stanco, girando bel bello, già mormora, intavola! in tavola!, e dondola il suo campanello.

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Olive ascolane: le conosci veramente?

olive all ascolana courtesy of Alimentipediaolive all ascolana courtesy of Alimentipedia

Olive ascolane: le conosci veramente? Almeno il 90% delle olive all'ascolana che si gustano nei bar, nei ristoranti, sulle mense apparecchiate dai vari catering non hanno mai veduto Ascoli, né il Piceno. Sono olive fritte ripiene. Gustose fin che si vuole, ma solo e soltanto generiche olive fritte ripiene. Sono copie dell'originale. L'«oliva tenera ascolana» è tutta un'altra cosa. È perentorio l'amico Moreno Pecchioli che dedica a questa squisitezza un lungo articolo su la Verità (nostra fonte per questo pezzullo). 

Chiedilo a qb

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Camembert de Normandie

Vacche normanneVacche normanne

Camembert de Normandie. Non solo con le mie righe di #parolegolose varco i confini della regione dove abito, ma mi spingo addirittura in un’altra nazione. Il camembert de Normandie è uno dei formaggi più famosi della Francia e del mondo. Benché protetto da una Dop, è ampiamente imitato. La sua qualità è legata al latte delle vacche normanne, nutrite con le erbe dei prati perenni della Normandia, o con il fieno durante l’inverno. Un latte ricco in grassi e proteine e perfetto per la caseificazione.

La gestualità sapiente del moulage (messa in forma) à la louche (con un mestolo) conferisce leggerezza alla pasta. Questo passaggio è fondamentale per dare al camembert le sue caratteristiche distintive:
la cagliata non viene frantumata, ma se ne preleva una parte con il mestolo (il cui diametro corrisponde a quello della forma: 10,5-11 cm) e la si depone nella forma dove inizia lo sgrondo del siero.
Lo stesso gesto si ripete come minimo cinque volte, ogni 40 minuti, deponendo ogni volta un poco di cagliata sullo strato sottostante.
Segue la salagione a secco e l’affinamento minimo di 22 giorni.
Il microclima dei dipartimenti del Calvados, dell'Eure, della Manche, dell'Orne e della Seine-Maritime, oltre alle caratteristiche straordinarie del latte lavorato a crudo fanno il resto.

 camembert

 

Quindi, perché creare un Presidio?

 

Sono passati più di due secoli da quando Marie Harel, secondo la leggenda, ospitò nella sua fattoria un prete ribelle in fuga dal Terrore della Rivoluzione parigina. Fu lui a trasmetterle la ricetta di questo formaggio di latte vaccino a pasta molle e crosta fiorita. Nel 1880 il camembert fu il primo formaggio a essere commercializzato in una scatoletta: la celebre confezione tonda in legno.
Ma nel secondo dopoguerra il sistema produttivo agricolo si industrializza, le latterie normanne diventano sempre più grandi e la grande distribuzione innesca la corsa al ribasso dei prezzi. Così la Normandia perde più del 90% dei piccoli produttori, i fermiers, a vantaggio di pochi grandi stabilimenti. Poco alla volta, la maggior parte dei nomi che hanno fatto la storia del camembert cede il proprio marchio storico a una multinazionale, che oggi produce buona parte del camembert sul mercato.

patrick mercierpatrick mercier
La legislazione attuale non aiuta. Il consorzio della Dop Camembert de Normandie, che prevede il latte crudo, il moulage à la louche manuale e sei mesi minimo di pascolo sui prati normanni, ha recentemente deciso di modificare il regolamento per consentire la pastorizzazione. In cambio sarà tolto dal mercato il marchio commerciale Camembert fabriqué en Normandie applicato su formaggi pastorizzati di tipo industriale che confonde totalmente le idee ai consumatori.

Ma entrambi i marchi consentono gli insilati, mais e soia ogm, la raccolta del latte da più allevamenti, la caseificazione meccanizzata, i fermenti selezionati, il cloruro di calcio. Il risultato è la presenza sul mercato di un camembert sempre più anonimo e una perdita di saperi artigianali e di biodiversità casearia.

In questo contesto, il camembert a latte crudo da produttori fermiers con il latte delle proprie vacche in larga misura di razza normanna e allevate sui pascoli ricchissimi della Normandia, correva un autentico rischio di estinzione. I primi due fermiers che hanno risposto all’appello del Presidio sono stati Patrick Mercier e Janine Lelouvier, che oltre alla AOP, hanno il marchio bio e la denominazione “latte da fieno”.
Il Presidio ha l’obiettivo di aiutare i produttori fermier a migliorare la tipicità del formaggio, usando i fermenti indigeni prodotti in azienda e non quelli industriali usati ormai da moltissimi piccoli produttori francesi, ma vuole anche promuovere l’agricoltura biologica, la razza bovina locale normanna, valorizzare il pascolo e l’uso di fieno autoprodotto.
Sul lungo periodo, il Presidio vuole diventare un esempio virtuoso per nuovi piccoli produttori fermiers che ambiscano a produrre camembert rispettoso della storia, del territorio e dell’allevamento normanno.

 

 

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Ines Di Lelio racconta di nonno Alfredo inventore delle celebri fettuccine

il vero alfredoil vero alfredo

Oggi nella nostra rubrica #parolegolose non raccontiamo il significato di singoli vocaoli o l'origine di alcune ricette. Oggi per voi abbiamo una storia, tutta leggere. Condividiamo con grande piacere la storia che ci  ha scritto in una email Ines Di Lelio, la nipote di nonno Alfredo, dopo aver letto qui on line la storia delle loro celebri fettuccine famose in tutto il mondo. 

STORIA DI ALFREDO DI LELIO, CREATORE DELLE “FETTUCCINE ALL’ALFREDO” (“FETTUCCINE ALFREDO”), E DELLA SUA TRADIZIONE FAMILIARE AL RISTORANTE “IL VERO ALFREDO” (“ALFREDO DI ROMA”) IN PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE A ROMA

Con riferimento al Vostro articolo ho il piacere di raccontarVi la storia di mio nonno Alfredo Di Lelio, inventore delle note "fettuccine all'Alfredo" (“Fettuccine Alfredo”).
Alfredo Di Lelio, nato nel settembre del 1883 a Roma in Vicolo di Santa Maria in Trastevere, cominciò a lavorare fin da ragazzo nella piccola trattoria aperta da sua madre Angelina in Piazza Rosa, un piccolo slargo (scomparso intorno al 1910) che esisteva prima della costruzione della Galleria Colonna (ora Galleria Sordi).

Il 1908 fu un anno indimenticabile per Alfredo Di Lelio: nacque, infatti, suo figlio Armando e videro contemporaneamente la luce nella trattoria di Piazza Rosa le sue “fettuccine”, divenute poi famose in tutto il mondo. Questa trattoria è the birthplace of fettuccine all’Alfredo.

vero alfredo fettuccinevero alfredo fettuccine

Alfredo Di Lelio inventò le sue “fettuccine” per dare un ricostituente naturale, a base di burro e parmigiano, a sua moglie (e mia nonna) Ines, prostrata in seguito al parto del suo primogenito (mio padre Armando).

Il piatto delle “fettuccine” fu un successo familiare prima ancora di diventare il piatto che rese noto e popolare Alfredo Di Lelio, personaggio con “i baffi all’Umberto” e qualche callo alle mani a forza di mischiare le sue “fettuccine” davanti ai clienti sempre più numerosi.


Nel 1914, a seguito della chiusura di detta trattoria per la scomparsa di Piazza Rosa dovuta alla costruzione della Galleria Colonna (oggi Galleria Sordi), Alfredo Di Lelio decise di aprire a Roma  il suo ristorante “Alfredo” che gestì fino al 1943, per poi cedere l’attività a terzi. estranei alla sua famiglia.
Ma l’assenza dalla scena gastronomica di Alfredo Di Lelio fu transitoria. Infatti nel 1948 riprese il controllo della sua tradizione familiare e aprì, insieme al figlio Armando, il ristorante “Il Vero Alfredo” (noto all’estero anche come “Alfredo di Roma”) in Piazza Augusto Imperatore n.30. 

Con l’avvio del nuovo ristorante Alfredo Di Lelio ottenne un forte successo di pubblico e di clienti negli anni della “dolce vita”. Successo, che, tuttora, richiama nel ristorante un flusso continuo di turisti da ogni parte del mondo per assaggiare le famose “fettuccine all’Alfredo” al doppio burro da me servite, con l’impegno di continuare nel tempo la tradizione familiare dei miei cari maestri, nonno Alfredo, mio padre Armando e mio fratello Alfredo.

In particolare le fettuccine sono servite ai clienti con 2 “posate d’oro”: una forchetta e un cucchiaio d’oro regalati nel 1927 ad Alfredo dai due noti attori americani M. Pickford e D. Fairbanks (in segno di gratitudine per l’ospitalità).


Mio nonno. Alfredo fu un grande amico di Ettore Petrolini, che conobbe nei primi anni del 1900 in un incontro tra ragazzi del quartiere Trastevere (tra cui mio nonno) e ragazzi del Quartiere Monti (tra cui Petrolini). Fu proprio Petrolini che un giorno, già attore famoso,  andando a trovare l’amico Alfredo, dopo averlo abbracciato, gli disse "Alfré adesso famme vede che sai fa".

Alfredo dopo essersi esibito nel suo tipico  "show" che lo vedeva mischiare le fettuccine fumanti con le sue posate d'oro davanti ai clienti, si avvicinò al suo amico Ettore che commentò "meno male che non hai fatto l'attore perché posto per tutti e due nun c'era" e consigliò ad Alfredo di tappezzare le pareti del ristorante con le sue foto insieme ai clienti più famosi.

Anche questi episodi fanno parte del cuore della bella tradizione di famiglia che continuo a rendere sempre viva con affetto ed entusiasmo.
Desidero precisare che altri ristoranti “Alfredo” a Roma non appartengonoal mio brand di famiglia.

Il Ristorante “Il Vero Alfredo” è presente nell’Albo dei “Negozi Storici di Eccellenza” del Comune di Roma Capitale.

Aperto tutti i giorni dalle 12:30 alle 15:30 e dalle 19:30 alle 23:30. Chiuso il lunedì a pranzo.

Grata per la Vostra attenzione e ospitalità nel Vostro interessante blog, cordiali saluti
Ines Di Lelio

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Va di moda (da secoli) il pranzo al sacco

 

charles cottet 1903 donne pranzano al sacco durante il pardon di sainte anne la paludcharles cottet 1903 donne pranzano al sacco durante il pardon di sainte anne la palud

#parolegolose. Il pranzo al sacco come lo definiamo? È un modo di preparare i pasti che prevede la predisposizione anticipata di cibi e alimenti (preparazione casalinga o acquistati)  da mangiare in spazi diversi da quelli domestici, come il posto di lavoro, in una mensa o in un refettorio, all'aperto, eventualmente in luoghi appositamente adibiti, e in situazioni diverse, come una pausa-lavoro, una ricreazione scolastica, un picnic, una gita, un'escursione, un safari, un viaggio, un campeggio. 

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Sarde a beccafico. Perché si chiamano così?

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Da dove nasce il nome di questo piatto tipico della cucina siciliana?  Sardi a beccaficu deriva giustappunto dai beccafichi, volatili della famiglia dei Silvidi. In passato i nobili siciliani li consumavano, dopo averli cacciati, farciti delle loro stesse viscere e interiora. Il piatto era gustoso ma inavvicinabile al popolo in quanto bene di lusso. I popolani siciliani ripiegarono quindi sulle materie prime che potevano permettersi, come le sarde. Per imitare il ripieno d'interiora utilizzarono la mollica di pane, qualche pinolo e poco altro.

Ecco a voi la ricetta dello chef Marcello Valentino

 

Ingredienti per 4 persone

12 sarde fresche sfilettate

1 cucchiaio di uva passa

6 fette di pane raffermo grattugiato

1 cucchiaino di scorza grattugiata di arancia o limone

1 cucchiaio di prezzemolo tritato

2 cucchiai di pinoli tostati 

20 g di caciocavallo semi stagionato

olio extravergine di oliva (varietà Nocellara)

½ bicchiere di vino bianco

50 ml di brodo di pesce filtrato

pepe nero da mulinello q. b.

sale affumicato q. b.

foglie di menta q. b.

succo di arancia o limone q. b.

 

Preparazione


In un robot da cucina, versare tutti gli ingredienti (tranne le sarde, il vino e la menta) e miscelare fino a ottenere un composto molto soffice e profumato.
Riempire le sarde sfilettate, e, prima di avvolgerle su se stesse, aggiungere qualche goccia di succo di agrume. Collocarle su una teglia antiaderente (o su carta forno) una accanto all’altra. Versare il mezzo bicchiere di vino e mettere in forno, a 180 °C.

Cuocerle, per i primi 10 minuti, con un coperchio (carta da forno oppure di alluminio) e successivamente, per altri 10 minuti, a teglia scoperta.

Qui sotto un'immagine di una ricetta sempre dello chef Valentino tratta dal blog di Luciano Pignataro: Sarde con cous cous

couscouscouscous



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Il vino nel piatto

vino nel piatto pag qb dicembre 2021 vino nel piatto pag qb dicembre 2021

Aggiungere del vino rosso al brodo caldo è un’antica tradizione padana. Qualcuno ha voluto trovare a questa abitudine nobili origini, legate ai raffinati consommé al Cognac o al Porto della cucina francese. Qui la proposta è con il T.E.R.S. Ancestrale di Venturini Baldini, da uve Lambrusco Montericco, varietà di collina. Un vino frizzante che rifermenta sui suoi lieviti indigeni. Ma certamente qualche lettore friulano e veneto ricorderà anche il Clinto…
“Il bere in vino non era limitato ai soli tortellini. A San Cesario sul Panaro, per esempio, c’era l’abitudine di annegare nel vino rosso perfino le tagliatelle al ragù. Dalle montagne è scesa anche a valle l’usanza di far macerare nel vino le caldarroste. Il brodo di vino caldo è usato persino per una gustosa zuppa di pane vecchio. Alcuni mescolano il vino anche col caffè e assicurano che quest’inconsueta bevanda ha straordinarie proprietà digestive. Provare per credere”. (Tratto da La cucina mirandolese di Giuseppe Morselli – Edizioni CDL).

Il bevr'in vin (dal dialetto mantovano = bere nel vino) è una minestra che costituisce aperitivo e antipasto. Secondo la tradizione infatti i pasti invernali devono essere preceduti dal bevr'in vin, servito in scodella preriscaldata, preparato in tre differenti modi.
1) Nel caso il primo piatto consista in agnolini o cappelletti, in brodo o asciutti, il bevr'in vin viene servito con un mestolo di brodo bollente, contenente alcuni agnoli o cappelletti. La temperatura verrà diminuita dal commensale aggiungendo a piacere vino rosso di forte corpo. Tale operazione viene anche definita negàr i caplét in d'l'acqua scura, cioè «annegare i cappelletti nell'acqua scura». Nei ristoranti, per favorire la
comprensibilità ai non mantovani, questa versione del bevr'in vin viene spesso denominata sorbir d'agnoli.
2) Nel caso il primo piatto sia costituito da tortelli di zucca, il bevr'in vin viene composto con cinque o sei tortelli appena cotti, ai quali vengono aggiunti un goccio d'acqua di cottura e mezzo bicchiere di vino. Questa versione è anche definita turtèi sguasaròcc, ovvero «tortelli sguazzanti»
3) Per tutti gli altri primi piatti, il bevr'in vin è semplicemente preparato con brodo di carne e mezzo bicchiere di vino. 

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