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Tortini al pecorino del Poro su salsa alla 'nduja

Tortini al pecorino del Poro su salsa 'ndujaTortini al pecorino del Poro su salsa 'nduja"Raccontate il vostro formaggio del cuore!" concorso per appassionati scrittori di cucina promosso dall’Ecomuseo delle Acque del Gemonese e dalla Condotta Slow Food "Gianni Cosetti" con la collaborazione di qbquantobasta rivista mensile di gusto e buongusto nell’euroregione in occasione della manifestazione “Gemona, Formaggio… e dintorni” ha visto la partecipazione di food blogger e food writer di numerose regioni italiane, fino alla Calabria. qui pubblichiamo la ricetta di Francesca Lucisano http://blog.giallozafferano.it/francinut87/

l tortini al pecorino del Poro su salsa alla 'nduja sono dei piccoli antipasti sfiziosi e golosi che ho voluto
preparare in occasione del concorso che richiedeva di promuovere un formaggio a latte crudo. Quale occasione migliore per raccontare il mio formaggio del cuore, il pecorino del Poro. Prima però voglio anche raccontarvi come è nata questa ricetta e, soprattutto, grazie a chi. In realtà il concorso si poneva il fine di promuovere più che altro i formaggi del Nord Est Italia che, nella mia bella Calabria, purtroppo scarseggiano. Così chiedendo agli organizzatori del concorso ho scoperto che si poteva gareggiare anche con altri formaggi locali.


E qui entra in gioco la mia persona speciale, owero il mio fidanzato chef. Tra una chiacchiera e l'altra gli ho
parlato del concorso ed ecco che subito mi ha detto "Ma perchè non prepari dei tortini con la salsa alla nduja
e pere disidratate per la parte croccante?". Owiamente l'idea mi piaceva e anche tantissimo, l'unica cosa
che non mi convinceva erano le pere. E così ecco che mi è venuta la geniale idea di preparare una sorta di
cialda di pane aromatizzato, in modo da poter accompagnare questi sfiziosissimi tortini.


Il pecorino del Poro è uno dei formaggi più richiesti nel territorio calabrese e sa ben distinguersi in quanto è
uno fra i migliori pecorini del Sud Italia. Per produrlo viene utilizzato il latte delle pecore locali fatto
coagulare a una temperatura di circa 35° C. Allo stesso viene aggiunto il caglio naturale di agnello in modo
da far coagulare il formaggio in circa 45 minuti. La cagliata viene successivamente rotta alla dimensione di
un chicco di riso e separata dal siero. Il prodotto che si ottiene viene pressato negli stampi e salato e da qui
parte la stagionatura, che è più o meno lunga a seconda del tipo di formaggio che si vuole ottenere.

l suoi punti di forza, oltre alla sua genuinità, risiedono sicuramente nei tradizionali metodi di lavorazione e
stagionatura. La cagliata, per esempio, non viene riscaldata dopo la frantumazione e la pressatura nelle
forme viene effettuata solo manualmente fino alla completa eliminazione dei residui di siero.
La pasta del formaggio è morbida, compatta, bianca e dal sapore dolce nel pecorino fresco ed è, invece,
compatta, più dura e dall'intenso sapore aromatico e leggermente piccante nel pecorino stagionato. Anche il
legame con il territorio gioca un ruolo di fondamentale importanza nella sua produzione. Curiosi di sapere
perchè? Beh, sicuramente perchè da sempre a Monte Poro si allevano le pecore!Ora che vi ho raccontato un po' di storia del formaggio e di come viene prodotto, vi spiego anche perchè ho scelto proprio lui per
preparare la mia ricetta.


In primis dovete sapere che adoro tutti formaggi, siano essi duri, morbidi, cremosi, freschi o stagionati.
Al pecorino del Poro sono legata in particolar modo perchè era il formaggio che mangiavo da bambina, e
vi confesso che lo mangio anche ora che sono bella "stagionata" anche io. Ho sempre vissuto nella provincia
di Vibo Valentia, a pochi km da Monte Poro e bastava una fetta di pane casareccio e una di pecorino fresco
(non chiamatemi Heidi però :) ), e si faceva una sana merenda. E poi sentire il pecorino fresco sciogliersi in
bocca, lasciatemelo dire che era ed è un vero e proprio paradiso.


Per preparare questi tortini ho utilizzato il pecorino del Poro fresco abbinato a un'altra eccellenza del territorio vibonese, la  'Nduja di Spilinga. Vi assicuro che il contrasto fra i due sapori, il dolce del formaggio e il piccante della salsa alla 'nduja, è semplicemente spettacolare. Per dare una nota croccante che completasse il piatto ho realizzato una cialda di pane aromatizzato posta a mo' di crumble sulla superficie del tortino.

Vi  ho fatto venire voglia di provare questa bontà? Seguitemi e vi spiegherò passo passo come prepararli!

Ingredienti per i tortini
300 g. di pecorino fresco del Poro;
200 mi. di panna fresca;
2 cucchiai di farina 00;
1 pizzico di sale;
1 pizzico di pepe;
Burro e farina q.b. per gli stampini.
Per la salsa alla 'nduja
300 g. di passata di pomodoro;
100 g. di 'nduja;
1 cucchiaio di olio extravergine d'oliva;
1 pizzico di sale.
Per la cialda di pane
5 cucchiai di mollica di pane fresco;
Sale e pepe q.b.
Acqua q.b.
Olio extravergine d'oliva q.b.

Preparazione
Prepariamo i tortini. Private il pecorino della sua buccia e grattugiatelo finemente servendovi di una grattugia o di un mixer. Ponetelo in un pentolino e unirvi la panna e la farina setacciata, mescolate bene il tutto e ponete il pentolino sul fuoco. Sempre mescolando fate sciogliere il pecorino, vi accorreranno circa 5 minuti. Regolate di sale e pepe e spegnete il fuoco. Imburrate e infarinate degli stampini di alluminio (i miei erano di grandezza media e me ne sono venuti 4) e, servendovi di un mestolo, versatevi la crema di formaggio all'interno lasciando circa un centimetro dal bordo in modo che in cottura non fuoriesca. Livellate per bene ed eliminate le evenutali gocce di formaggio dai bordi degli stampini. lnfornate in forno preriscaldato a 180° per circa 30 minuti. La loro superficie dovrà essere ben dorata e il loro aspetto ben sodo. Sfornateli e fateli raffreddare per almeno 10 minuti.


Prepariamo la salsa alla 'nduja. Ponete la passata di pomodoro in un pentolino insieme a un cucchiaio di
olio extravergine d'oliva e a un pizzico di sale. Cuocete per circa 5 minuti, quindi unite la 'nduja spellata.
Amalgamate fino a farla sciogliere, spegnete il fuoco e mettetela da parte. Se preferite, potrete frullare la
salsa servendovi di un frullatore a immersione.
Prepariamo la cialda di pane. In una ciotola ponete la mollica di pane fresco, aggiungete sale e pepe e
tanta acqua quanto basta ad ottenere un composto della giusta consistenza. Prendete una teglia e
foderatela con della carta da forno. Ponete all'interno il composto di mollica di pane e schiacciatelo molto
bene servendovi del dorso di un cucchiaio o di un batticarne. Condite il tutto con un filo d'olio extravergine
d'oliva. lnfornatela sotto il grill per circa 10 minuti. La cialda di pane dovrà risultare ben dorata e croccante,
quindi sfornatela e fatela freddare.


Composizione del piatto. Realizzate un fondo con la salsa alla 'nduja e al centro sformate il tortino al pecorino capovolgendolo. Prendete la cialda di pane, spezzettatela e ponetela sulla superficie del torlino a mo' di decorazione. Proseguite alla stessa maniera per la composizione degli altri tortini che avrete ottenuto, quindi servite i tortini al pecorino del Poro su salsa alla 'nduja.

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Budino al Parmigiano Reggiano di Bianca Modenese

“CONCORSO PER… APPASSIONATI SCRITTORI DI CUCINA. RACCONTATE IL VOSTRO FORMAGGIO DEL CUORE”. In occasione della manifestazione Gemona. Formaggio e dintorni, l’«Ecomuseo delle Acque» e la «Condotta Slow Food “Gianni Cosetti”», in collaborazione con il mensile qbquantobasta hanno promosso un concorso per far conoscere le diverse tipicità del formaggio a latte crudo.  Questo è il racconto di Micaela Ferri  http://blog.giallozafferano.it/lericettedimichi/

Qui, a casa mia, è nato il Re dei formaggi a latte crudo, il Parmigiano Reggiano, ma pochi conoscono la
particolare razza di mucca dal cui latte è nato. Ebbene sì, il Parmigiano Reggiano che noi tutti conosciamo deriva dal latte di una bella mucca dal manto color crema e dal musetto simpatico (a dire il vero tutte le mucche hanno il musetto simpatico, io le adoro!). La Bianca Modenese è una mucca autoctona, di indole pacifica e buona produttrice di latte e carne.
All’inizio del Novecento era molto diffusa, tanto che negli anni ' 50 del secolo scorso è stato istituito il libro genealogico nazionale della razza. Poi, con gli anni, il lento declino e la progressiva sostituzione con la più
produttiva razza Frisona, tanto da modificare il disciplinare della produzione del Parmigiano Reggiano,
ha fatto si che questa razza quasi scomparisse.


In tempi recenti alcuni allevatori si sono riuniti in una associazione e hanno pazientemente lavorato per
reintrodurre questa straordinaria razza bovina. Nel 2006 è nato a Modena il ”Consorzio Valorizzazione
Prodotti Bovini di razza Bianca Valpadana-Modenese”, il cui scopo è quello di salvaguardare e aumentare i capi di bestiame, assicurare tecniche di allevamento sane e naturali, trasformare correttamente i prodotti e permetterne una commercializzazione curata e coordinata dai soci stessi. Il Consorzio salvaguarda la qualità del prodotto e, al tempo stesso, dà all’allevatore l’opportunità di uscire dalla spirale degli alti costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita, recuperando la tranquillità necessaria per rimanere sul territorio e continuare a fare il proprio mestiere.

E io, il mio Parmigiano Reggiano, lo acquisto proprio da un socio del Consorzio, che produce un formaggio biologico, di mucca Bianca Modenese di montagna: qui si apre un mondo, perché il Parmigiano Reggiano fatto con il latte di montagna ha decisamente una marcia in più!

Credo che tutti voi conosciate a grandi linee il procedimento per preparare il Parmigiano.
Si raccoglie il latte della mungitura serale che viene scremato, perché lasciandolo fermo una notte il grasso in esso contenuto sale a galla (da questo grasso vengono prodotti la panna fresca e poi il burro); successivamente,viene  unito al latte della mungitura mattutina. Viene scaldato a 35-38° e poi si aggiunge il caglio. Si preleva la cagliata, la si mette nei grandi stampi e poi si ripone il tutto in salamoia, dove resterà alcuni giorni secondo un attento e preciso disciplinare. Viene poi messo a riposo, a stagionare come minimo per 15 mesi, ma il meglio di sé lo dà dopo 24-36 mesi di stagionatura.


Questa è la ricetta che ho scelto di proporre per esaltare questo formaggio fantastico, presente sulle
tavole di tutti gli italiani e non solo.
Ingredienti
150 g di Parmigiano Reggiano dop di Bianca Modenese
100 g di fecola di patate
1 tuorlo
1/2 bicchiere di latte intero
1 noce di burro
Preparazione
In una piccola casseruola sciogliete il burro nel latte a fuoco dolce in modo che il latte non bolla.
Togliete dal fuoco e aggiungete il Parmigiano Reggiano grattugiato e mescolate con cura. Coprite con
la pellicola trasparente e lasciate riposare per un paio di ore.
Preparate il bagnomaria.
Mettete a cuocere il composto di Parmigiano Reggiano, aggiungete la fecola di patate, mescolando con
cura e continuamente fino a quando il composto inizierà ad addensarsi.
Togliete dal fuoco il budino e lasciate intiepidire, quindi aggiungete il tuorlo d’uovo e mescolate con
cura.
Versate il composto negli stampini monodose in alluminio e cuoceteli a bagnomaria in forno caldo a
140° per 40 minuti.
Togliete dal forno e lasciate intiepidire i budini.
Sformateli delicatamente nel piattino individuale e serviteli con alcune gocce di Aceto Balsamico
Tradizionale di Modena dop. 

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Vi presentiamo il pecorino di monte Poro

"Raccontate il vostro formaggio del cuore!" il concorso per appassionati scrittori di cucina promosso dall’Ecomuseo delle Acque del Gemonese e dalla Condotta Slow Food "Gianni Cosetti" con la collaborazione di qbquantobasta rivista mensile di gusto e buongusto nell’euroregione in occasione della manifestazione “Gemona, Formaggio… e dintorni”, ci ha fatto conoscere interessanti realtà produttive. Ben due sono stati i racconti che hanno visto come formaggio del cuore il pecorino di monte Pro. quanti di voi lo conoscevano? Qui pubblichiamo il racconto di Cinzia Gullà http://blog.giallozafferano.it/cucinanonnavirgi/.


Il suono ritmico e rassicurante del bastoncino sulla spianatoia, mentre mani esperte preparavano i fileja, fuori al sole una distesa di pomodori a essiccare. Nella dispensa riposava accuratamente custodito il pecorino stagionato. Un ricordo di tempi antichi ma anche attuali quando nelle vie dei paesini calabresi la domenica mattina il profumo del cibo ti avvolge nel suo abbraccio confortante: si friggono le polpette, si arrostiscono i peperoni, dalla commare Rosina invece polpette al sugo. Una storia antica che ancora rivive grazie alle radicate tradizione culinarie del territorio calabrese, che si tramandano di generazione in generazione anche nella preparazione di uno dei formaggi più noti della zona, il pecorino dell’altopiano del monte Poro.


Il Pecorino del Monte Poro in provincia di Vibo Valentia racchiude tutto il profumo delle erbe aromatiche dei pascoli dell’altopiano del Poro. Un  formaggio a pasta semidura fatto con latte ovino a cui può essere aggiunto latte caprino, dal sapore dolce oppure pungente e leggermente piccante, secondo la stagionatura media o lunga. Quello fresco dalla crosta gialla mantiene una pasta morbida, da mangiare a fettine con salumi e verdure anche sottolio. Quello stagionato con la crosta di colore rossiccio diventa a pasta dura e si presta a essere grattugiato sui primi piatti o a essere usato negli impasti per insaporire.
Le tecniche di lavorazione tradizionali non contemplano il riscaldamento della cagliata dopo la sua frantumazione: il latte crudo proveniente da due mungiture consecutive viene scaldato e addizionato con caglio di agnella, la cagliata subisce poi una rottura fine, delle dimensioni di un chicco di riso. Per poi essere pressata manualmente nelle fuscelle per eliminare i residui di siero, infine viene salata.
Durante la stagionatura che varia da un mese a un anno, le forme vengono captate con olio di oliva e peperoncino, da cioè deriva il colore rossiccio della crosta.


La ricetta
Fileja con pesto di pomodori secchi su crema di pecorino del monte Poro
La mia ricetta vuole raccogliere in unico piatto questi ricordi, rielaborando sapori antichi in chiave moderna.

Ingredienti
160 g di pasta fileja, 100 g di pecorino del monte Poro media stagionatura, 200 ml di latte intero, 70 g di pomodori secchi sottolio, 20 g di pecorino Monte Poro a lunga stagionatura grattugiato.
Procedimento.
In un pentolino versare il latte e il pecorino di media stagionatura grattugiato, cuocere per dieci minuti, lasciare raffreddare. Frullare con il mixer per creare la crema di formaggio. Frullare i pomodori secchi con un filo di olio fino a farli diventare un paté. Cuocere i fileja in abbondante acqua salata lasciandoli al dente, scolari e condirli con il pesto di pomodori secchi. Versare in un piatto la crema di formaggio e sistemarvi sopra la pasta condita. Aggiungere il pecorino del monte poro a lunga stagionatura grattugiato e servire caldo.   


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Conoscete il don Carlo? Formaggio pugliese di masseria

Il miglior formaggio italiano semi stagionato,  il “Don Carlo” dei Fratelli Cassese, premio assegnato agli “Italian Cheese Awards 2015”Il miglior formaggio italiano semi stagionato, il “Don Carlo” dei Fratelli Cassese, premio assegnato agli “Italian Cheese Awards 2015”“Racconta il formaggio del cuore” è il concorso per appassionati scrittori di cucina promosso dall’Ecomuseo delle Acque del Gemonese e dalla Condotta Slow Food Gianni Cosetti con la collaborazione di qbquantobasta, rivista mensile di gusto e buongusto nell’euroregione in occasione della manifestazione “Gemona, Formaggio… e dintorni”. Pubblichiamo il racconto del cuore di Carlo Maria Tuti che ci racconta il Don Carlo, il formaggio nobile prodotto nella storica Masseria del Duca, che si trova nel cuore della Puglia, in provincia di Taranto, tra Crispiano, Grottaglie e Martina Franca.


Non è facile datare la nascita del Don Carlo, in quanto la sua ricetta si è tramandata di generazione in generazione, da un casaro all'altro, tra le mura della masseria, sin da quando questa apparteneva alla famiglia del Duca de Sangro, ricco feudatario sin dal'600. Quando Carlo Federico Cassese, con i suoi figli, acquistò la Masseria del Duca, da buon intenditore apprezzò subito le caratteristiche uniche di questo formaggio vaccino, stagionato nei locali antichi della masseria e cercò in tutti i modi di valorizzarlo continuandone la produzione oosl come dettava l'antica tradizione: formaato vaccino ottenuto con caglio di capretto.


Il Don Carlo è un formaggio a pasta dura finemente granulosa la cui crosta - edibile - è trattata a scopo conservativo con pregiato olio extra vergine di oliva che le dona una colorazione dorata e un aroma unico. Consistenza dura, friabile, facilmente riducibile in scaglie, ma allo stesso tempo adatto a essere grattugiato. Dal gusto intenso che diventa sempre più deciso, con note di piacevole piccante. L'interno è di colore giallo pallido mentre in crosta varia dal paglierino al marrone dorato a seconda della stagionatura del formaggio.
Un formaggio che per lungo tempo è stato semplicemente chiamato formaggio, ma che da alcuni anni è Il "Don Carlo", in onore di quel nonno tenace e carismatico che ha fondato quell'azienda oggi gestita dalla Società Agricola F.lli Cassese s.s., che ne riunisce figli e nipoti. Oggi il "Don Carlo" è presente come prodotto di eccellenza in importanti nicchie di mercato sia in Italia che all'estero e deve molto delle sue fortune ad Alberto Marcomini, considerato il talent scout del formaggio italiano, che lo ha scoperto e lo ha portato alla ribalta nazionale. Di recente è stato anche
inserito nella speciale guida del Gambero Rosso riservata ai migliori formaggi d'Italia, e ha ricevuto la Menzione Speciale come miglior formaggio di fattoria al concorso nazionale Alma Caseus svoltosi al Cibus di Parma.

La ricetta: Cozze in pastella di Don Carlo

Ingredienti: (4persone)
1kg cozze
100 g di farina farina
mezzo bicchiere di acqua
100 g formaggio Don Carlo
olio di semi di girasole
sale
prezzemolo

Aprire le cozze sul fuoco o meglio a crudo con un coltello, estrarre il frutto e immergerlo nella pastella precedentemente preparata di acqua, farina, formaggio Don Carlo grattugiato, sale, prezzemolo.
Una volta pastellato il frutto della cozza, immergerlo nell'olio di semi di girasole fino a farlo dorare.
Estratralo dall'olio, appoggiarlo su carta assorbente e servire.

CARATTERISTICHE DI PRODUZIONE del formaggio artigianale don Carlo
Provenienza certa: Tutti i formaggi, compreso il Don Carlo, sono prodotti esclusivamente con il latte
munto nella storica Masseria del Duca, nel cuore della Puglia
Filiera corta: Tutte le fasi di produzione dei formaggi awengono in masseria, dalla mungitura del latte in
stalla, alla trasformazione nel caseificio aziendale, alla stagionatura nel seicentesco casolare
Controlli rigrosi: li latte è sottoposto adun rigido regime di controlli a cura delle autorità italiane che ne certificano la qualità.
Prodotto naturale: Non contiene conservanti e/o coloranti, ma solo latte, caglio e sale.
Rispetto dell'ambiente: Per le fasi di produzione si utilizza energia elettrica autoprodotta in masseria attraverso un impianto di biogas,  sfruttando anche il siero proveniente dal caseificio aziendale.
Confezione ecologica: non si utilizzano imballaggi superflui e si utilizzano esclusivamente contenitori riutilizzabili e/o riciclabili.





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Dalle malghe alle latterie Turnarie, il latteria di Campolessi

latteria a latte crudo di Campolessi, foto di Elena Maurutto latteria a latte crudo di Campolessi, foto di Elena Maurutto “Raccontate il vostro formaggio del cuore”, concorso per appassionati scrittori di cucina promosso dall’Ecomuseo delle Acque del Gemonese e dalla Condotta Slow Food "Gianni Cosetti "con la collaborazione di qbquantobasta rivista mensile di gusto e buongusto nell’euroregione in occasione della manifestazione “Gemona, Formaggio… e dintorni”.

Il racconto che vi proponiamo è a firma Elena Maurutto e si intitola: Dalle malghe alle Latterie Turnarie.
Il “Latteria di Campolessi”: un formaggio espressione della fusione tra la storia del Friuli rurale e la tradizione lattiero-casearia regionale.


Il Latteria è un formaggio semiduro a media maturazione che nasce a partire dalla stessa esperienza casearia dei formaggi prodotti nelle malghe ad alta quota delle zone dell'arco alpino, dove l'isolamento dei pastori e dei malgari richiedeva la trasformazione del latte in un prodotto che non dovesse essere consumato in tempi brevi. Similmente a quanto avviene per altri formaggi di montagna, il latteria è ottenuto proprio a partire da una cagliata sottoposta, dopo rottura, a un riscaldamento a bassa temperatura (45°C), con il quale si favorisce la separazione spontanea del siero dalla massa solida che si compatta, permettendo una sufficiente conservabilità del prodotto. Nelle regioni alpine e prealpine la malga è stata la prima sede di produzioni casearie che prevedevano il concorso di latte di vari allevatori, ma a partire dal XIX secolo, con l'istituzione delle latterie turnarie, si sviluppa anche nella pianura friulana un'attività casearia organizzata. L'identificazione di questo formaggio con il nome Latteria risale proprio al 1881, quando a Forni Avoltri, in Carnia, viene fondata la prima latteria sociale Turnaria.



Le latterie Turnarie sono state una delle prime forme di società cooperativistica, nella quale ogni socio si impegnava  a conferire il latte prodotto giornalmente, per poi trasformarlo in formaggio. Gli allevatori i quali conferivano il latte alla latteria sociale del paese presso la quale i prodotti venivano divisi tra i soci a turno: ecco il perché del nome turnaria.  Uno strumento efficace di difesa dell'economia rurale locale in quanto consentiva ai piccoli agricoltori di lavorare il latte entro le 24 ore dalla mungitura senza dover attendere giorni per riunire il latte munto in più giorni,  a discapito della qualità del prodotto finale.


Da questo momento il formaggio latteria comincia ad espandere la sua produzione dalle malghe alle vallate sottostanti, alle grandi valli, alle pianure e diventa così il simbolo della produzioni lattiero-casearie di tutto il Friuli.
Oggi la produzione di Latteria ha una grande diffusione sul mercato regionale grazie all'introduzione del trattamento termico del latte ed l'utilizzo di fermenti lattici selezionati, innovazioni che hanno permesso la produzione di latteria su larga scala. Rimangono però attive alcune latterie Turnarie che utilizzano ancora le caldaie in rame e che lavorano il latte crudo quotidianamente con la sola aggiunta di lattoinnesto naturale autoprodotto in latteria ogni due giorni a partire dalle migliori partite di latte conferite dai soci. Il formaggi latteria viene identificato indicando la zona o il paese in cui è collocato il caseificio produttore. Il Latteria di Campolessi, una frazione di Gemona del Friuli (UD), rimane uno degli ultimi esempi di produzione tradizionale a base di latte crudo, lavorato fresco ogni giorno, senza l'impiego di alcun tipo di additivo.  E' un Prodotto Agroalimentare Tradizionale (PAT)  del Friuli Venezia  Giulia  e Presidio  Slow Food in quanto considerato espressione del patrimonio culturale italiano e in quanto prodotto secondo tradizione a partire dal latte crudo, quindi più ricco di sostanze e soprattutto di principi attivi, aromi e sapori.

Perchè il latte crudo è stato abbandonato per  produrre il formaggio latteria?
L'impiego di latte crudo è stato nel tempo abbandonato perché sottopone il processo e il risultato finale a maggiori rischi di difetti di lavorazione. Per esempio le forme di formaggio a latte crudo sono maggiormente soggette a difetti legati alla fermentazione tardiva, problematica minimizzata dalla pastorizzazione del latte, il tutto a discapito però delle proprietà organolettiche e nutrizionali. Pastorizzare il latte significa omologare il prodotto finale minimizzando i difetti e gli scarti di produzione.
 La scelta dei soci della Latteria Turnaria di Campolessi è di rimanere fedeli al metodo produttivo tradizionale garantendo un'alta qualità del prodotto finale. Questo risultato è possibile grazie ai controlli su  tutta la filiera, a partire dall'alimentazione delle bovine. Queste sono per il 90% dei capi di Razza Pezzata Rossa alimentate secondo un disciplinare ai cui devono attenersi tutti i soci allevatori: è proibito somministrare agli animali insilati di mais ed è consentita esclusivamente un'alimentazione semplice a base di fieno, erba e cereali. Il latte prodotto dalle bovine alimentate in questo modo garantisce la massima espressione dell'aroma e del sapore nel formaggio, una elevata attitudine alla caseificazione e il rispetto di tutti i parametri igienico sanitari per la sicurezza alimentare.  Una vera filiera corta controllata dalla stalla alle nostre tavole.



Per il processo di caseificazione si utilizza il latte crudo proveniente da due munte. Il latte viene raccolto e portato alla caseificazione nell'arco di 12 ore dalla mungitura. Infatti il latte della sera viene conservato e refrigerato a 5°C, mentre il latte del mattino viene conferito in latteria ancora caldo e unito al latte della sera prima che viene però scremato e separato dalla panna di affioramento. Viene privato manualmente della crema con l’ausilio di una apposita spannarola. Il latte della mungitura del mattino viene invece posto direttamente ed ancora caldo nella caldaia in rame per essere miscelato con quello freddo e scremato della sera. La massa viene riscaldata a 32-36°C prima di aggiungere il lattoinnesto naturale preparato nella latteria stessa accantonando una quantità del migliore latte e trattandolo termicamente a 62-65°C per qualche secondo, per abbattere la microflora che potrebbe causare gonfiori precoci e portandolo poi a 41-43°C per favorire lo sviluppo della microflora lattica spontanea tipica della zona di produzione fino al raggiungimento di una acidità desiderata. Viene quindi aggiunto caglio di vitello e a questo punto avviene il processo di coagulazione e il latte viene lasciato riposare per 25-40 minuti.
Quando il coagulo ha acquistato sufficiente consistenza si procede alla rottura della cagliata sminuzzandola manualmente con la lira e successivamente meccanicamente, fino a quando i granelli caseari sono ridotti a piccole parti. Questa fase dura circa 8-15 minuti e dipende dalla maturazione dei latte.

Raggiunto grado di rottura desiderato dal casaro,  si mantiene la massa in movimento e non appena i granelli si presentano  spurgati si procede alla cottura fino al raggiungimento della temperatura di 45C° per 20 minuti circa: in questa fase avviene la moltiplicazione della microflora immessa col lattoinnesto e parte di quella naturale del latte, con un conseguente incremento dell'acidità del siero. Una volta pronta la cagliata viene estratta del siero con l’ausilio di una stecca metallica flessibile, alla quale viene assicurata una tela di lino.

Il latteria viene posto nelle fascere e pressato per 24 ore. Nella fascera viene inserita una matrice che premendo sulla crosta in formazione incide sullo scalzo la data di produzione, i dati anagrafici, il paese d’origine della forma stessa. La salatura avviene in salamoia e completata a secco sui banchi con 1-2 salature in altri 4-8 giorni. Segue la stagionatura dove la maturazione minima è di circa 30 giorni per il latteria fresco, 60 giorni per il latteria semi stagionato, 6 mesi per lo stagionato.

piatto realizzato dall'osteria Villafredda di Loneriacco piatto realizzato dall'osteria Villafredda di Loneriacco La ricetta: il piatto “Turnario”

Ingredienti per 4 persone:

•    500 g di formaggio Latteria stagionato 6 mesi;
•    200 g di formaggio Latteria stagionato 12 mesi;
•    200 g di formaggio latteria fresco 30 giorni;
•    300 g di “strisulis” di latteria (i ritagli di massa casearia che provengono dal procedimento di formatura e pressatura delle forme di formaggio);
•    500 g patate;
•    1 cubetto di lievito di birra fresco;
•    100 g di farina di frumento tipo 00;
•    500 g di farina di mais biologica;
•    2 cucchiai di salsa di pomodoro.


Il piatto “Turnario” è una composizioni di 4 diverse ricette a base di formaggio latteria di Campolessi: il frico, il frico croccante, i bocconcini caldi a base di strisulis, e la fonduta rosa a base di formaggio latteria 30 giorni e salsa di pomodoro.

Partiamo con il frico tradizionale. Si prendono una o più  patate sbucciate e grattugiate a julienne e 500 g di formaggio latteria 6 mesi sempre grattugiato a julienne.
Una volta scaldata la padella con un filo di olio extra vergine d'oliva, cuocete le patate, aggiungete il formaggio grattugiato e cominciate la cottura del frico mantenendo sempre mescolata la massa di patate e formaggio latteria fino a completa fusione del formaggio. Ora non resta rosolare il nostro frico, prima da un lato e poi dall'altro, fino a formare una bella crosticina rossa.

Il frico croccante si prepara partendo dal formaggio stagionato almeno 9 mesi, grattugiato  distribuito su un piatto di ceramica e sciolto in microonde. Una volta fatta questa operazione si attende qualche minuto che si raffreddi solidificandosi e fintanto che la sfoglia risulta ancora malleabile, diamogli una forma a barchetta.

La fonduta di formaggio latteria fresco 30 giorni si prepara sciogliendolo in un tegame e aggiungendo due cucchiai di salsa di pomodoro a creare una crema morbida di colore rosato.

L'ultima preparazione sono i bocconcini caldi ripieni di strisulis filanti. Si deve preparare una pastella a base di acqua, lievito di birra fresco e farina di frumento 00. Il procedimento è semplice: si prende una pentola dal diametro di 20 cm con pareti alte in modo da mettere olio di semi da portare a temperatura per la frittura. Bisogna tagliare a cubetti il formaggio fresco e una volta infilzati su stuzziccadenti lunghi (o forchettine di legno adatte all'uso) si comincia immergendo il cubetto nella pastella e subito nell'olio caldo. Bastano pochi istanti di cottura, la pastella si gonfia nascondendo al suo interno un cuore  formaggio filante.

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Lo stracchino all'antica delle Valli Orobiche

stracchino all'antica delle valli Orobichestracchino all'antica delle valli Orobiche“Racconta il formaggio del cuore”, concorso per appassionati scrittori di cucina promosso dall’Ecomuseo delle Acque del Gemonese e dalla Condotta Slow Food Gianni Cosetti con la collaborazione di qbquantobasta rivista mensile di gusto e buongusto nell’euroregione in occasione della manifestazione “Gemona, Formaggio… e dintorni”. Pubblichiamo il racconto del cuore del terzo classificato: Eleonora Gaspari con Stracchino all'antica delle Valli Orobiche.

C'era una volta una malga sul cocuzzolo delle alpi Orobiche che produceva un formaggio con il latte delle sue mucche.... Questo sarebbe l'inizio della storia se la malga fosse solo un bellissimo ricordo raccontato dai nostri nonni, invece la storia che oggi vi voglio raccontare inizia così.
C'è una malga sul cocuzzolo delle alpi orobiche, lontana dal caos della città e dallo smog, che produce ancora secondo la vecchia tradizione, un formaggio a latte crudo, con il latte delle sue mucche, un formaggio che prende il nome di "Stracchino all’antica delle Valli Orobiche".
Una malga immersa nel verde e senza la possibilità di essere contaminata dal progresso dell'uomo, una malga che può essere raggiunta solo a piedi grazie a un sentiero un po' impervio; dopo una scarpinata di 45 minuti si giunge in un vero e proprio paradiso, lontano da tutto e tutti, dove le mucche pascolano felicemente sui loro prati e producono un latte anzi il latte che dà vita allo Stracchino all’antica delle Alpi Orobiche.

Lo stracchino era il formaggio preferito di mia nonna, quello che non mancava mai nel suo frigorifero e la sua frase ricorrente nelle feste "grandi", come le chiamava lei, era: "Vengo a mangiare da te ma voglio polenta e stracchì", ecco perché lo stracchino è il formaggio del mio cuore!
Lo stracchino, lo conosciamo tutti, perché si trova in qualsiasi banco frigo dei supermercati ma lo Stracchino all’antica delle Valli Orobiche ha una tradizione tutta sua e non ha niente a che vedere con quelli simil spalmabili e quasi privi di gusto che si trovano in commercio.

Lo stracchino, anticamente, era il formaggio principe dell'economia familiare, prodotto utilizzando il latte appena munto, crudo appunto, delle poche mucche che ogni famiglia possedeva. Questo formaggio si produceva durante il periodo della transumanza, da qui si presuppone derivi il doppio significato del termine Stracchino ossia "Stracch" che in bergamasco significa stanco ed era dipeso dalle mucche stanche dalla transumanza, oppure dalle erbe non più floride e rigogliose, stanche, del periodo autunnale.

Oggigiorno immaginiamo la stalla solo ed esclusivamente come un luogo per il ricovero degli animali; anticamente, invece, era un luogo equiparato alla casa, un rifugio caldo, grazie al calore emanato dalle bestie, per trascorrere le fredde notti d'inverno, mentre le donne lavoravano a maglia, i bambini giocavano a campana e gli uomini si dedicavano alla produzione del formaggio, dei salumi e quello che serviva per il sostentamento della famiglia. Il fatto di avere un luogo dedicato alla produzione del formaggio all'interno della stalla faceva sì che il contadino non dovesse uscire, correndo il rischio di raffreddare il latte appena
munto, ma poteva lavorarlo direttamente sul posto. Rapportandolo al gergo attuale, si può dire che era un formaggio a Km0!


Lo Stracchino all’antica delle Alpi Orobiche è un formaggio prodotto con latte crudo, in quanto fuoriuscendo dalle mammelle delle vacche ad una temperatura compresa tra i 35° - 37°, può essere lavorato senza essere ulteriormente scaldato. Il contadino, quindi, mungeva le sue mucche e dopo aver messo da parte il latte necessario per l'uso quotidiano della famiglia, il resto lo portava nel suo piccolo caseificio all'interno della stalla e qui aggiungeva il caglio: come per magia dopo una ventina di minuti si formava la cagliata.
Anche il caglio era prodotto direttamente dal contadino, usando l'abomaso, lo stomaco che serviva
ai vitellini per digerire il latte materno, i vitellini venivano macellati a 40gg dalla nascita proprio per
evitare che l'abomaso si atrofizzasse e non fosse più utilizzabile per produrre il caglio.
L'abomaso prelevato dal vitellino, veniva riempito con il sale e fatto seccare vicino al camino. Una
volta completamente seccato, veniva tritato e utilizzato come caglio.


La particolarità dello Stracchino all’antica delle Valli Orobiche è che la cagliata non viene rotta, ma
viene tagliata molto delicatamente in quadrotti piuttosto regolari grossi come una noce, così da
separare il siero dalla parte casearia, con degli arnesi chiamati, "basla" una sorta di bastardella
senza manici e con fondo tondo, la "spada", un altro arnese di legno a forma di spada e lo "spino",
un pezzo di ramo del biancospino. Una volta tagliata, la cagliata viene messa nelle apposite forme di legno rettangolari con le "büsche", dei fili d'erba privi di foglie che conferiscono la classica rigatura sulla crosta dello
stracchino.
A questo punto inizia il periodo della stufatura ossia il tempo di riposo e stagionatura dello stracchino, che dopo qualche giorno è pronto per essere mangiato. Trattandosi di un formaggio che faceva parte dell'economia familiare era consumato assieme ad altri elementi poveri come la polenta.


Ed è proprio con l'abbinamento di questi due elementi principe della dieta dei contadini di un tempo che vi propongo una ricetta tipica delle valli Orobiche rivisitata in chiave street food.
Vi propongo i "brüstolot", delle crocchette grosse quanto un mandarino a base di polenta ripiene di stracchino e cotte sulla brace del camino, abbrustolite quindi, da qui il termine "brüstolot". Io le cucino sulla piastra e le abbino a della salvia e carote in pastella e dei bocconcini di stracchino
sempre in pastella. Un antipasto ricco e golosissimo, in vero e proprio street food style!


BRÜSTOLOT CON SALVIA, CAROTE E STRACCHINO IN PASTELLA

brustolot con stracchino in pastellabrustolot con stracchino in pastellaIngredienti per 6 persone
PER I BRÜSTOLOT
250g. di farina bramata per polenta
1l. d'acqua
50 g. di Stracchino all’antica delle Valli Orobiche
1/2 cucchiaio di sale grosso integrale

Per la pastella
100g. di farina di riso
150g. di birra o acqua ghiacciata
2 carote
Qualche rametto di salvia
100g di Stracchino all’antica delle Valli Orobiche
Olio di semi q.b. per friggere
Sale grosso integrale q.b.
Tempi di esecuzione: 60 minuti per la polenta + 60 minuti per le altre preparazioni compresi
i brüstolot.

PREPARAZIONE
Iniziate con il preparare la polenta.
Portate a bollore a l'acqua con il sale integrale, quindi versate a pioggia la farina bramata e
cuocete per 50 minuti. La polenta dovrà essere molto compatta.
Quindi versatela in un recipiente e fatela raffreddare per qualche minuto.
Nel frattempo preparate i tocchetti di stracchino che dovranno essere inseriti all'interno delle
crocchette.
Aiutandovi con uno scavino, ricavate 8 palline di stracchino che andrete a tagliare a metà così da
ottenerne 18.
Prendete la ciotola con la polenta e con un cucchiaio prendetene un po'. Date la forma di una
crocchetta, appiattitela leggermente sul palmo della mano facendo un incavo al centro così da
mettere un tocchetto di stracchino. Chiudete bene, iniziando dal centro e poi spostandovi verso le
estremità e conferendo la forma sferica facendola roteare sui palmi delle mani.
Preparate 18 crocchette di polenta e mettetele da parte.
Passate ora al tris in pastella.
Ricavate dallo stracchino dei bocconcini, io ho usato sempre lo scavino, e lasciateli da parte.
Lavate d asciugate molto delicatamente la salvia e mettete da parte anch'essa.
In ultimo pelate e lavate le carote, tagliatele a metà nel senso della lunghezza, quindi ricavate dei
bastoncini.
In una ciotola, setacciate la farina di riso quindi versate a filo la birra e mischiate con una frusta o
una forchetta, la pastella dovrà avere essere piuttosto densa, pertanto aggiungete la birra poco per
volta così da ottenere la giusta consistenza.
A questo punto mettete sul fuoco una bistecchiera, in ghisa è l’ideale, portatela a temperatura,
adagiate sopra i brüstolot e rigirateli di tanto in tanto così da non attaccarli troppo sul fondo. Pulite
il fondo della bistecchiera ad ogni giro, così da non creare fumo e bruciare la polenta che si è
attaccata sul fondo.
Adagiate le crocchette sulla carta assorbente.
Nel frattempo portate a temperatura l'olio per friggere il tris in pastella, fate la prova con un goccio
di pastella. Iniziando dalle carote, scolate i bastoncini dalla pastella in eccesso e tuffateli nell'olio
bollente, fateli dorare per un paio di minuti quindi adagiateli sulla carta assorbente e salateli.
Continuate con le foglie di salvia e in ultimo con i tocchetti di stracchino. In quest'ultimo caso non
scolate la pastella, altrimenti le parti "scoperte" si scioglieranno con il calore dell'olio e non
terranno più la forma.
A questo punto possiamo preparare i nostri coni per un aperitivo in versione street food di tutto
rispetto. Per ogni cono mettete tre brüstolot, due tocchetti di stracchino un rametto di salvia e
qualche bastoncino di carota.
Io l'ho presentato nei coni ma può essere presentato anche in grande piatto di portata dove poi
ognuno sceglierà le quantità che vorrà. Inutile dire che deve essere mangiato tutto rigorosamente
caldo: il forno può essere un grande alleato per tenere in temperatura il tutto, ma tenendo lo
sportello aperto con un cucchiaio di legno altrimenti l'umidità renderà molli le carote e la salvia che
invece dovranno essere croccanti.

Lo Stracchino All’antica delle Valli Orobiche è un formaggio a pasta molle, sapore intenso e
persistente al palato, non troppo pastoso, si adatta a tante prelibatezze ma ritengo che
l'abbinamento con la polenta sia il migliore in quanto si può assaporare al meglio questo formaggio
non avendo contaminazioni di sapori con altri cibi.
Che dire, ho scoperto un formaggio che mia nonna amava ma che io non ho mai apprezzato fino in
fondo e grazie ad una giornata alternativa passata presso una malga l'ho conosciuto meglio.
Finisco dicendo che il formaggio a latte crudo è un bene prezioso della tradizione contadina che
deve essere tutelato e non fa per niente male, a meno che non cadiate dal sentiero come ho fatto
io, ma quella è un'altra storia.....

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e anchePuzzone di Moena tra profumi e tradizione

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Puzzone di Moena tra profumi e tradizione

“Racconta il formaggio del cuore”, concorso per appassionati scrittori di cucina promosso dall’Ecomuseo delle Acque del Gemonese e dalla Condotta Slow Food Gianni Cosetti con la collaborazione di qbquantobasta rivista mensile di gusto e buongusto nell’euroregione in occasione della manifestazione “Gemona, Formaggio… e dintorni”. Pubblichiamo oggi il secondo racconto Un giro nel caseificio tra profumi e tradizione di Enrica Gouthier che ha ottenuto una menzione speciale per l'impegno dimostrato nell'approfondimento della tematica della caseificazione a latte crudo (Puzzone di Moena)  Enrica scrive sul blog http://blog.giallozafferano.it/ilsoleincucina/

Non ci sono particolari dosi o ingredienti per questa ricetta che vi sto per presentare. L’idea mi è stata suggerita da un’amica. La colazione della domenica era un immancabile appuntamento con la torta di patate e puzzone. Ebbene sì! Al primo pasto, con tutta la famiglia riunita, si intingeva nel latte e caffè; quest’ultimo rigorosamente d’orzo, visto che il classico costava troppo all’epoca.
La ricetta è tipica di Predazzo, mi spiegava la mia amica. Nel paese limitrofo, a circa 3 km, la preparazione era già diversa. Una torta semplice con ingredienti poveri ma sicuramente sostanziosa e dal gusto deciso. Grazie a questa idea, mi collego per parlare di un’altra tradizione iniziata negli alpeggi con i malgari ed ora giunta in valle, nel piccolo Caseificio Sociale di Predazzo.
La preparazione dei formaggi a latte crudo è sempre stata la classica “ricetta” per produrre questi latticini. Con lo sviluppo di macchinari e tecnologie, la ricerca e test, questa lavorazione è stata messa in secondo piano, dando maggiore importanza all’utilizzo del latte pastorizzato. Forse più sicuri grazie all’eliminazione del 98% di batteri durante la lavorazione del latte, ma perdendo il gusto caratteristico dei formaggi.
Ma per chi volesse mantenere viva la tradizione è ancora possibile produrre il formaggio utilizzando il latte crudo nonostante tutto ciò che rischia di renderlo inquinato e non più fresco e genuino come una volta?


Questo è stato l’interrogativo che mi ha spinto all’interno del laboratorio in cui si produce il Puzzone di Moena, formaggio a latte crudo con una lunga lavorazione, passione e tradizione.
Diventato DOP nel 2013, il piccolo Caseificio è l’unico luogo al quale è permesso vendere le proprie forme di Puzzone anche al di fuori dello spaccio. La preparazione inizia tutti i giorni alla stessa ora, mi racconta il vice casaro, che mi ha accolta all’interno del suo mondo con molta pazienza e rispondendo a tutte le mie curiosità!
Vengono lavorati circa 3000-3500 litri di latte crudo ogni mattina e la resa è davvero minima: 90% di acqua (che verrà riutilizzata per creare le ricotte o per altri usi farmaceutici) e solo 10% di pasta. Il latte, oltre ad essere altamente controllato e verificato, è genuino! I 13 soci che forniscono questo elemento al Caseificio nutrono le loro mucche solo con fieno e l’aria dolomitica: gli ambienti aperti e i prati verdi fanno si che questa preziosa materia prima sia semplicemente perfetta. Sana e naturale anche sotto l’aspetto nutrizionale. Di questo latte possono andarne ben fieri i produttori di Puzzone. Inoltre, una volta addensato, tagliato, scaldato e messo nelle forme, il formaggio può spurgare il siero in eccesso su taglieri in legno grazie alla deroga ottenuta per mantenere viva la tradizione di un tempo.


Girando tra le varie stanze del Caseificio, spero sempre di non dare fastidio e guardo affascinata il duro lavoro che porta sulle nostre tavole un formaggio eccezionale. Il vice casaro mi fa strada nelle cantine molto umide e fredde (circa 95%-100% di umidità e 10-12 gradi) in cui le forme stagionano da un minimo di tre mesi ad un massimo di 10-12 mesi. Qui avviene un'altra enorme ed importante procedura: ogni settimana il formaggio va lavato con l’acqua per prevenire l’entrata di batteri estranei e per favorire la proliferazione di quelli interni donando così il classico odore tipico del Puzzone (procedura chiamata SPUGNATURA, dove le prime due settimana il latticino è bagnato con acqua e sale). All’interno del magazzino ci saranno altre 6000 forme che vengono bagnate una ad una manualmente. Finalmente è arrivato il momento della vendita, il momento in cui il formaggio lascia la sua casa per raggiungere luoghi lontani e allietare i pasti di tutte le famiglie.
Sicuramente non è facilmente apprezzabile, ha un gusto deciso e intenso ma grazie al mantenimento della tradizione, ad ogni singolo morso si può notare la differenza con altri tipi di formaggi. La lavorazione a latte crudo rende il Puzzone più delicato da lavorare, necessità di maggiori attenzioni ma il risultato è impagabile.
Ringrazio tutto il laboratorio che mi ha accolta come una di famiglia e mi ha svelato tutti i segreti per creare un formaggio così buono e ricco di storia.



Ora vediamo come preparare la ricetta della mia amica Roberta, commessa dello spaccio.
TORTA DI PATATE (per 4 persone)
3 patate grandi bollite
Polenta avanzata (quanta ne avete, almeno 200g)
200 g di Puzzone di Moena DOP
Una noce di burro
Preparazione:
1. Utilizzate le patate e la polenta preparate il giorno precedente.
2. In una ciotola schiacciate le patate e unire la polenta. Tagliare a dadini il formaggio e unirlo al composto giallo.
3. Scaldare una padella e sciogliere una noce di burro.
4. Versare l’impasto di questa torta nella padella e cuocere a fuoco medio fino a quando non si sarà
formata una leggera crosticina. Girarla e cuocere ancora per 5 minuti.
5. Servire la torta di patate ancora calda a colazione con il latte e caffè.

PREPARAZIONE IN DETTAGLIO DEL PUZZONE DI MOENA
I 13 soci, provenienti da Predazzo, Moena e Passo San Pellegrino, portano il latte al Caseificio Sociale di Predazzo alla sera versandolo in enormi vasche chiamate tenk. Alle 6 arriva il casaro con i suoi collaboratori e si inizia la creazione delle forme. Circa 3000-3500 l di latte vengono spostati nel polivalente e qui viene aggiunto il fermento chiamato latte innesto. Quest’ultimo è prodotto direttamente in caseificio: il latte viene scaldato fino a raggiungere il 65°. Si fa raffreddare fino ai 45° e poi mantenuto a questa temperatura per un periodo detto incubazione. Qui si acidifica fino a quando in casaro non decide che è giunto al giusto indice di acidificazione. A questo punto è possibile utilizzarlo: dura al massimo tre giorni e serve ad aumentare la carica positiva nel latte crudo.
Su 3000 l di latte crudo si aggiunto circa 5 l di latte innesto. Ora si scaldano, portando la temperatura a 34° (ci vuole circa 30 minuti). Si unisce il caglio di vitello in polvere e si lascia rassodare per altri 30 minuti. Deve avere la consistenza di un budino; questo stato è detto rassodamento. Giunto alla densità desiderata, le pale della polivalente tagliano la pasta fino ad ottenere la grandezza di un chicco di grano. Si azionano nell’altro verso e mescolano la pasta raggiungendo la temperatura di 47°. Finita questa fase, si cala la il composto in vasche di acciaio con griglie e con delle assi si copre tutta la pasta facendo si che la cagliata si separi dal siero (circa 10 minuti). Quest’ultimo verrà riutilizzato per le ricotte oppure spedito al sierificio a Trento.
Durante il procedimento di separazione si vede quanta resa di pasta rimane: su 3000 l iniziali si formeranno 30 forme da 10 kg ciascuno. C’è quindi un 90% di acqua e solo un 10% di resa.
Passato il tempo necessario, la cagliata viene tagliata e messa in fascere di legno con teli di lino. Viene posata sui taglieri di legno e messe sotto delle presse un’ora e trenta per lato. Piccolo appunto sui taglieri di legni: il Caseificio Sociale è in possesso di una deroga per l’utilizzo di queste assi. Si utilizzano solo per la preparazione del Puzzone di Moena in quanto favoriscono lo spurgo del siero dalle forme e si mantiene viva la tradizione di anni di lavorazione di questo formaggio.
Per tutte le altre preparazioni vengono usato taglieri in plastica, facilmente lavabili e senza il rischio di incorrere in batteri assorbiti dallo stesso.
Passate le tre ore, le forme vengo tolte dalle fascere e messe nel marchio di plastica dove rimangono fino al mattino seguente. A questo punto si sarà data la forma al formaggio, verranno pesate e sistemate nell’acqua e sale per tre giorni.
Sistemate, poi, su altre assi di legno, rimarranno per tutta la stagionatura in luoghi molto umidi e freddi: 10°-12° con un 95%-100% di umidità.
Ogni settimana, fino al momento della vendita, viene praticata, su ogni singola forma, la spugnatura o bagnatura: si bagnano e puliscono le croste dalla muffa che si crea. Le prime due settimane questa procedura viene fatta con acqua e sale, in seguito solo con l’acqua.
Questa pratica è caratteristica di tutti i formaggi detti a crosta lavata, dove i batteri positivi continuano a proliferare all’interno, mentre la patina di unto impedisce ad altri batteri di penetrare conferendo una certa “puzza” al formaggio. Siccome la frequenza di questa pratica è molto elevata nel Puzzone e le mucche si nutrono solo di fieno con aromi dolomitici, ecco spiegato il nome di questo formaggio. Inoltre in ladino, lingua che si parlava anni fa, veniva chiamato spretz tzaorì ossia formaggio saporito.La sua stagionatura va da un minino di 3 mesi ad un massimo di 10-12 mesi.

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Il bitto storico della Valtellina

Si è conclusa la seconda edizione di "Raccontate il vostro formaggio del cuore!" concorso per appassionati scrittori di cucina promosso dall’Ecomuseo delle Acque del Gemonese e dalla Condotta Slow Food "Gianni Cosetti" con la collaborazione di qbquantobasta rivista mensile di gusto e buongusto nell’euroregione in occasione della manifestazione “Gemona, Formaggio… e dintorni”. Questo è il racconto di Mauro Giacomo Bertolli vincitore della menzione speciale.

Sono quasi vent'anni che ho casa anche in Valtellina, ho sciato in tutte le sue piste, passeggiato in quasi tutte le sue valli e mangiato nella maggior parte dei ristoranti rappresentativi del territorio. Decine sono le persone che ho invitato e a cui ho fatto da guida, e ognuno, al momento di ripartire, mi chiedeva più o meno la stessa cosa: "Dove
posso comprare un bel pezzo di bitto, di quello giusto?"


Di quello giusto... mai domanda fu più azzeccata, dato che il bitto è ormai da alcuni anni oggetto di una guerra o meglio ancora di una ribellione. Ma procediamo per gradi: il bitto tradizionalmente è un formaggio di latte crudo fatto sulle Prealpi Orobie, in una zona dove si incontrano le province di Sondrio, Bergamo e Lecco: sto parlando delle Valli del Bitto, in primo luogo la Val Gerola. Si produce con latte di vacca appena munto a cui si aggiunge una percentuale, inferiore al 20 %, di latte di capra orobica, una razza locale da salvaguardare, di rara bellezza e personalità.

Prima di approfondirne storia e caratteristiche voglio raccontarvi chi sono i "ribelli del bitto", e perchè si parla di guerra del bitto. Siamo negli anni 90, la richiesta di bitto è sempre più alta e viene prodotto non solo nelle
zone tradizionali: diventa una DOP nel 1996 e questo porta all'approvazione di un disciplinare di produzione molto meno restrittivo rispetto alla tradizione: in sintesi si può fare in tutta la provincia di Sondrio, non è obbligatorio usare il latte di capra, gli animali possono essere alimentati anche con mangimi e non solo con le erbe di montagna.

Un gruppo di casari, 12-13, decide di rifiutare in toto queste modifiche, vedendole come una minaccia alla salvaguardia della tradizione locale, e si riunisce nel Consorzio Salvaguardia Bitto Storico. Ha una sua casera di stagionatura a Gerola Alta, luogo magico dove si può acquistare bitto con stagionatura anche di 10 anni.
La guerra per carta bollata si protrae da tempo, e l'Expo sembrava aver fatto il miracolo di un accordo fra i contendenti, dando diritto di cittadinanza ad entrambi, il Bitto Storico ed il Bitto DOP, riconoscendone le diverse caratteristiche e peculiarità, anche perchè, parlando strettamente in termini numerici, di Bitto Storico ce n'è per pochissimi, e anche di Bitto DOP forse non ce n'è per tutti. Purtroppo l'Expo non è ancora finito, e già alla
Mostra del Bitto del 17-18 ottobre l'armonia si è rotta tra le parti, con la mancata partecipazione del Consorzio Salvaguardia Bitto Storico.

Tante sono le cose che voglio raccontarvi: la sua storia, come si fa, ma anticipiamo un momento di godimento, stuzzichiamo l'acquolina: come si mangia ? Un abbinamento classico è così com'è, meglio se con qualche anno di stagionatura, con un bicchiere di Sforzato, lo straordinario passito secco valtellinese, ottenuto da uve nebbiolo del biotipo locale chiavennasca.
Molti lo pensano ingrediente importante per i pizzoccheri, ma questo è un grosso errore: si deve usare la Casera, al massimo un bitto giovanissimo ma il risultato è peggiorativo, sia dal punto di vista del gusto sia da quello economico, per cui ricordate: Casera.


Un utilizzo veramente originale è quello che propone l'amica Anna Bertola del ristorante Altavilla di Bianzone, che io chiamo la "Signora degli sciatt", grande ricercatrice di formaggi da proporre ai suoi avventori: un tortellone fatto con pasta sfoglia sottile, ripieno di funghi porcini, servito su una fonduta di bitto. Delicatezza e succulenza,
un trionfo di sapori, in cui il nostro formaggio diviene protagonista assoluto.

E' al popolo dei Celti a cui dobbiamo la tecnica di lavorazione del Bitto: scacciati dalla pianura si rifugiarono in Valtellina e si dedicarono alla produzione di formaggi a lunga conservazione: il nome "Bitto" si pensa derivi da Bitu, che probabilmente significava "perenne", proprio per indicare la lunga durata che può avere questo formaggio. Furono probabilmente i primi ad allevare nella stagione estiva gli animali da latte negli alpeggi e a trasformare in formaggio il latte prodotto.
Del Bitto ne parla per la prima volta Ortensio Lando (1510-1558), noto umanista, che nella sua opera "Commentario de le piu notabili, & mostruose cose d’Italia, & altri luoghi, di lingua aramea in italiana tradotto, nel quale s’impara, & prendesi estremo piacere. Vi si e poi aggionto un breue catalogo de gli inuentori de le cose che si mangiano, & si beuono, nuouamente ritrouato, & da messer anonymo di Vtopia composto" dice testualmente: " Non ti scordar.....il cacio di Melengo (Valmalenco),et della valle del Bitto....".


Andiamo un po' più nel dettaglio di come si fa il Bitto Storico, che ricordo essere Presidio Slow Food: come già detto si produce solo nei mesi estivi in alpeggio, con latte di vacche di razza bruno alpina e di capre orobiche, nutrite solo dal pascolo alpino. Due mungiture al giorno e lavorazione del latte immediata, nel "calecc", un caseificio d'alpeggio, una sorta di baita senza tetto, coperta da un telone, in cui vi è la “culdera”, un grande paiolo in rame a forma di campana rovesciata.
Il latte è lavorato sul posto per evitare sia alterazioni da trasporto sia contaminazioni batteriche. Viene riscaldato nella “culdera” fino alla temperatura di 35-37° C, poi, tolta la “culdera” dal fuoco, si aggiunge il caglio di vitello per far coagulare il latte, ottenendo così la cagliata. Questa viene rotta con lo “spìgn”, un bastone in legno con fili metallici alle estremità. Si arriva a pezzettini grandi come un chicco di riso. A questo punto la “culdera” viene rimessa sul fuoco e in un paio d'ore portata alla temperatura finale di 50-52°C. Il casaro estrae la pasta di formaggio con un telo in lino e la pressa nelle fascere in legno circolari di diametro regolabile, intorno ai 50 cm.
Dopo la formatura e la salatura a secco, deve maturare per almeno 70 giorni, ma questa fase può durare anche 10 anni ed oltre. Tutti gli attrezzi usati sono in legno: i casari sono concordi nel dire che solo così si conservano le peculiarità di ogni alpeggio.
E' un formaggio delicato, con tendenza dolce e decise note aromatiche date dalle erbe d'alpeggio, che diventa sempre più intenso e strutturato con l'invecchiamento. Mi piacciono anche i sentori di fieno e frutta secca. Consiglio a tutti di venire in Valtellina e gustarselo in una malga come premio per una bella escursione sui sentieri.


http://www.italiadelvino.com

 

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Formaggio del cuore: i nomi dei vincitori e gli argomenti raccontati

Si è concluso domenica 18 ottobre 2015 "Raccontate il vostro formaggio del cuore!" concorso per appassionati scrittori di cucina promosso dall’Ecomuseo delle Acque del Gemonese e dalla Condotta Slow Food "Gianni Cosetti" con la collaborazione di qbquantobasta rivista mensile di gusto e buongusto nell’euroregione in occasione della manifestazione “Gemona, Formaggio… e dintorni”. 

1° classificato: Libera Pincin con Tabor e Jamar, eccellenze del Carso 508 Punti
2° classificato: Elena Maurutto con Dalle malghe alle Latterie turnarie 477
3° classificato: Eleonora Gaspari con Stracchino all'antica delle Valli Orobiche 466 punti.



MENZIONI SPECIALI per
Un giro nel caseificio tra profumi e tradizione di Enrica Gouthier per l'impegno dimostrato nell'approfondimento della tematica della caseificazione a latte crudo

Bitto, uno dei simboli della Valtellina di Mauro Giacomo Bertolli per aver raccontato il suo formaggio del cuore con un testo conciso e insieme appassionante.

Di seguito i nomi e i link dei partecipanti: 

Di tutti i partecipanti i testi saranno pubblicati QUI sul quotidiano on line nei prossimi giorni. Sarà una lettura affascinante 

Ed eccovi i nomi e qualche nota sui giurati:

Federico Mariutti, chef dell'Osteria Turlonia di Praturlone di Fiume Veneto con esperienze nelle cucine del Gritti Palace di Venezia, dell’Hotel Savoy di firenze, del ristorante Salvini di Milano e del Rigoletto di Reggiolo (RE) **Michelin.

Bruno Franzil, tecnico agrario con esperienza sul campo avendo per oltre un decennio seguito il Laboratorio di analisi della Comunità montana del Gemonese, Canal del Ferro e Val Canale occupandosi di latte e vino.

Sara Mardero, insegnante e Presidente della Pro Loco Pro Glemona

Giovanni Venturini, assessore all’ambiente, all’agricoltura, all’artigianato e al commercio del Comune di Gemona del Friuli

Fabiana Romanutti, autrice di libri di cucina, giornalista, direttore ed editore delle testate qbquantobasta mensile cartaceo di gusto e buon gusto nell'euroregione e del quotidiano di gusto on line www.qbquantobasta.it

Un  grazie particolare da parte di qbquantobasta all'Ecomuseo delle Acque del Gemonese e alla Condotta Slow Food della Carnia "Gianni Cosetti" per averci scelto come media partner e a Etelca Ridolfo dell'Ecomuseo che ha seguito e coordinato tutte le fasi del concorso. 

 

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Formaggi di Carnia nel kit dello sportivo

L'invito ricevuto aveva un nome molto futurista: Aperitivo industriale. - Leggi anche Aperitivo industriale con Friulmont - Ma si parlava soprattutto di formaggi, meglio, formaggi di montagna e di uno nuovo kit per sportivi con il formaggio suddetto. Impossibile non essere presenti per chi come noi ha il formaggio nella sua top five list dei cibi preferiti. La serata Friulmont era volta a presentare il nuovo sito con la sezione e-commerce rivolta a ristoratori o privati che desiderano ricevere direttamente i formaggi delle aziende di montagna aderenti al Consorzio. E a far conoscere  l'intelligente strumento di marketing kit dello sportivo- leggi anche  Kit dello sportivo in Alto Friuli -  per il crescente popolo di ciclisti, sciatori, sportivi in genere che frequentano le montagne friulane ci ha pensato il presidente Friulmont dottor Michele Mizzaro.

Presentati dal professor Michele Morgante, presidente di Innova, i relatori hanno dato prova di uno stile narrativo rapido, conciso e coinvolgente: futurista appunto. E al futuro si è agganciata la domanda forse più significativa lanciata dal professor Stefano Bovolenta, zoologo: ha un futuro il nostro passato? Decisamente sconvolgenti i dati esposti sulla sparizione di pascoli e prati verdi, sull'unificazione delle razze, oggi pare esista solo la Frisona o quasi. Approfondiremo l'argomento in un prossimo post o articolo sul mensile cartaceo qbquantobasta. A conclusione un ricco buffet a base di formaggi, in purezza come il Pastorut, o declinati dalle sapienti mani del cuoco carnico Daniele Cortiula.

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