Nelle Valli del Bitto dove la tradizione è regina
Il bitto è un formaggio a latte crudo, fatto sulle Prealpi Orobie dove si incontrano le province di Sondrio, Bergamo e Lecco: sono le Valli del Bitto, con la Val Gerola al primo posto. Si produce con latte di vacca appena munto a cui si aggiunge una percentuale, inferiore al 20 %, di latte di capra orobica. Il Consorzio Salvaguardia Bitto Storico ha una sua casera di stagionatura a Gerola Alta, dove si può acquistare bitto con stagionatura anche di 10 anni.
Un abbinamento classico, ce lo ha consigliato Mauro Giacomo Bertolli, consiste nel gustarlo in purezza con un bicchiere di Sforzato, lo straordinario passito secco valtellinese, ottenuto da uve nebbiolo del biotipo locale chiavennasca.
Molti pensano che il Bitto sia ingrediente importante per i pizzoccheri, ma questo è un grosso errore: si deve usare la Casera.
Un utilizzo originale è quello che propone Anna Bertola del ristorante Altavilla di Bianzone: un tortellone fatto con pasta sfoglia sottile, ripieno di funghi porcini, servito su fonduta di Bitto.
La storia del Bitto
È al popolo dei Celti che dobbiamo la tecnica di lavorazione del Bitto: furono i Celti i primi ad allevare nella stagione estiva gli animali da latte negli alpeggi e a trasformare il latte in formaggio. Il nome "Bitto" si pensa derivi da Bitu, con il significato du "perenne", proprio per indicare la lunga durata che può avere questo formaggio.
Del Bitto parla Ortensio Lando (1510-1558), che nella sua opera Commentario de le piu notabili, & mostruose cose d’Italia, & altri luoghi, di lingua aramea in italiana tradotto, nel quale s’impara, & prendesi estremo piacere. Vi si e poi aggionto un breue catalogo de gli inuentori de le cose che si mangiano, & si beuono, nuouamente ritrouato, & da messer anonymo di Vtopia composto dice testualmente: "Non ti scordar.....il cacio di Melengo (Valmalenco) et della valle del Bitto...".
Il Bitto Storico, Presidio Slow Food, si produce solo nei mesi estivi in alpeggio, con latte di vacche di razza bruno alpina e di capre orobiche, nutrite solo dal pascolo alpino. Due mungiture al giorno e lavorazione del latte immediata. Il tutto avviene nel calecc, un caseificio d'alpeggio, una sorta di baita senza tetto, coperta da un telone, in cui vi è la culdera, un grande paiolo in rame a forma di campana rovesciata.
Il latte, ci informa ancora Bertolli in un articolo pubblicato sul mensile cartaceo QUBI è lavorato sul posto per evitare sia alterazioni da trasporto sia contaminazioni batteriche. Viene riscaldato fino alla temperatura di 35-37 °C, poi, tolta la “culdera” dal fuoco, si aggiunge il caglio di vitello per far coagulare il latte, ottenendo così la cagliata.
Questa viene rotta con lo “spìgn”, un bastone in legno con fili metallici alle estremità. Si devono creare pezzettini grandi come un chicco di riso. A questo punto la “culdera” viene rimessa sul fuoco e in un paio d'ore portata alla temperatura finale di 50-52 °C. Il casaro estrae la pasta di formaggio con un telo in lino e la va a pressare nelle fascere in legno circolari di diametro regolabile, intorno ai 50 cm.
Dopo la formatura e la salatura a secco, il formaggio deve maturare per almeno 70 giorni, ma la maturazione stagionatura può durare anche 10 anni e oltre.
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