Enrico Bartolini lo chef italiano più stellato del mondo
Enrico Bartolini. Lo chef italiano più stellato del mondo. La Guida Michelin 2021 ha sancito con un'ulteriore stella la supremazia dello chef del Mudec nel mondo della ristorazione in Italia.
Ero andata a intervistarlo qualche mese fa per qbquantobasta proprio al Mudec (via Tortona 56, Milano, nel cuore del design district). Di seguito la mia intervista.
Nato in provincia di Pistoia nel 1979, Enrico Bartolini ha conquistato la prima stella più di dieci anni fa, quando guidava Le Robinie in Oltrepò Pavese, ed è stato l’unico nella storia della “Rossa” a conquistare quattro Stelle in una sola edizione, quella del 2016. Nel suo percorso professionale meritano una menzione anche il Devero Ristorante e il Dodici24 Quick Restaurant a Cavenago Brianza, dove nel 2010, ad appena 33 anni, lo chef si guadagna la seconda stella Michelin e arricchisce il suo palmarès con le Tre Forchette del Gambero Rosso e i Tre Cappelli de
l’Espresso. Nel 2016 a Milano apre il “Ristorante Enrico Bartolini” al terzo piano del MUDEC, Museo delle Culture. In quello stesso anno inaugura il “Casual Ristorante” a Bergamo e prende in gestione i ristoranti “La Villa” e la “Trattoria Toscana”, rinominata “La Trattoria Enrico Bartolini”, dell’esclusivo resort “L’Andana”, a Castiglione della Pescaia, nel cuore della Maremma. Fino ad approdare a Venezia, dove dà vita al “Ristorante Glam”, nuova ed esclusiva meta gourmet della Serenissima. All’interno del Relais Sant’Uffizio a Cioccaro di Penango (Asti), ex convento del XVI
secolo, la Locanda del Sant’Uffizio un'altra sfida imprenditoriale di Enrico Bartolini. L'ultima stella - per ora - la conquista con Il Poggio Rosso nel Chianti.
"L'amore per la vita è anche voglia di mangiarla"
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Quando ti sei accorto di voler fare il cuoco?
Sinceramente non saprei rispondere a questa domanda perché da piccolo ero molto attaccato al lavoro che faceva mio papà, il calzolaio. Poi però mi sono reso conto che il mettere insieme degli ingredienti per fare per esempio una crêpe, mi dava soddisfazione e sentivo che potevo farlo bene. Mi sono iscritto alla scuola alberghiera pieno di dubbi: non sapevo se avrei potuto farcela. Solo negli anni ho capito che la più grande gratificazione ce l’hai solo con il successo qualitativo di quello che tocchi, il che non vuol dire che venga apprezzato per forza o che renda del denaro. Perciò se lo fai con il cuore, poi le altre cose succedono da sole. Con il tempo ho compreso che mi piaceva essere accettato dagli ingredienti come manipolatore e dalle persone che avevo intorno come responsabile.
Poi ho iniziato a lavorare e mi sono reso conto che più sei autorevole e più sei comprensivo, più dai energia e fiducia agli altri e più ricevi una performance qualitativa. Ho anche capito che non essere individualisti aiuta a fare un gruppo di lavoro più stimolante a fronte degli obiettivi prefissati e che se uno per un’ora fa riposo non è uno scansafatiche, ma una persona che si è riposata per rendere meglio.
C’è stato un momento di svolta nella tua carriera?
Forse mi sono reso conto davvero di cosa volesse dire fare questo mestiere durante la mia esperienza a Parigi. Fino ad allora pretendevo l’organizzazione della brigata ed ero motivato solo se vedevo intorno a me venti persone che pedalavano dure a testa bassa rinunciando alla vita. La cucina non è così, dev’esserci disciplina, ma ci sono anche il sorriso, l’educazione, l’amore per quello che si fa. A Parigi con tanti ristoranti in un posizionamento di lusso mi veniva automatico guardare all’Italia che in quel momento, siamo nel 1999, non aveva tanti posti stellati. Ero affascinato da Parigi, volevo starci, ma a un certo punto mi ha preso la malinconia, ero troppo giovane per consolidare una carriera da responsabile in una città in cui c’erano tanti “mostri” della ristorazione. Per questo e per altri motivi, sono rientrato e ho ricominciato il mio percorso andando da Alajmo. Anche se ero performante, in quel momento non avevo una guida e mi sentivo perso. Dopo tre anni mi ha cercato Coppola per aprire un ristorante nel suo bellissimo chalet in Oltrepò Pavese e ho aperto Le Robinie a 25 anni.
Dove cerchi la tua ispirazione quando crei un nuovo piatto?
Non la cerco. Io credo che il ristorante sia fatto di un percorso culturale ed emotivo e questo penso valga per tutti. Alcuni ristoranti riescono grazie alla perfezione dell’esecuzione sfiorata, perché non è mai totale, a generare un’atmosfera attraverso la quale è più facile condurre delle idee. Ma potrei dire anche il contrario.
Ti dedichi ancora alla scoperta di prodotti come facevi in Oltrepò?
Il tempo è poco, ma io voglio sapere ed essere certo che le cose che arrivano qui sono il frutto di una cultura che merita rispetto. Essere vicino ai contadini è importantissimo. In questo momento mi affido a una persona che seleziona per noi gli ingredienti e riesce ad avere una relazione con tanti piccoli produttori in varie zone d’Italia. È un fornitore con un’immensa sensibilità di palato.
Cosa diresti a un Enrico di vent’anni?
Probabilmente ripeterei le cose che mi hanno detto le persone che mi hanno dato più stimoli. Io ho faticato ad avere delle guide, poi ho imparato ad averle e sono riuscito a fidarmi perché avevano molta più esperienza di me. È una condivisione di esperienze. A esempio, un amico mi ha guidato verso i sapori di alcuni piatti di grandi chef di cui lui era stato cliente. Lui
mi ha insegnato l’importanza della piacevolezza che si deve dare a chi viene a trovarci e quindi ho capito che bisogna sempre cucinare per gli altri e non solo per se stessi.
Quali scelte, secondo te, hanno contribuito al conseguimento della terza stella? (nella Guida 2020 n.d.a. confermata nel 2021).
Beh, penso all’investimento fatto sulla sala e al raggiungimento dell’equilibrio della proposta in cucina. L’ultimo passo sono state le porcellane. Sembra assurdo, ma quando ho cambiato i piatti improvvisamente i miei occhi hanno individuato una linearità di stile che parte dalla cucina e arriva alla sala. Ci siamo arrivati piano piano. E poi sicuramente la tenacia nello
specializzarsi sugli ingredienti perché quando si aumentano i volumi la freschezza delle cose rischia di venire trascurata.
Ci sono alcuni piatti a cui sei particolarmente affezionato?
In primis, i Bottoni di olio e lime con salsa di cacciucco e polpo alla brace: la considero la mia prima ricetta in cui la tecnica è fondamentale. È un piatto straordinariamente
equilibrato e coraggioso nei sapori e innovativo nella consistenza del raviolo: non è mai stato modificato. La svolta sull’esercizio scolastico c’è stata invece sulla Sarde in Saor: un piatto che è partito da un’alice con la salsa blu e che negli ultimi sette anni è cambiato forse venti volte. Ora è una proposta completa, con una disciplina tecnica straordinaria. Può non piacere, ma è un antipasto dove ritrovo la cultura della cucina di pesce realizzata da un cuoco creativo. Infine, tra i recenti direi il manzo: una carne cruda marinata servita con una gelatina ispirata all’aspic milanese, gelato alla senape e del caviale. L’insieme di questi ingredienti regala un’esplosione di sapori ed è un carpaccio che non riuscirei a proporre in trattoria per la difficoltà e i tempi di esecuzione.
A che punto sei della tua vita?
Non lo so, del domani non c’è certezza. Io mi sento acerbo in tante cose e francamente passo il tempo a fare il conto dei difetti. Cerco di anticipare le difficoltà ma non sempre ci riesco. Amo nutrirmi bene ed esagerare ogni volta che posso, ma moderatamente. Nel tempo mi sono convinto che volevo fare delle cose che poi sono successe e questa è una sensazione meravigliosa. Le stelle Michelin ci hanno dato un messaggio chiarissimo, cioè che siamo stati premiati per quello che stavamo facendo e quindi dovevamo concentrarci solo in questo. Se ti riesce bene qualcosa e te lo hanno anche detto, allora “sei a cavallo”. Ora voglio consolidare il mio percorso e quello dei ristoranti che seguo, secondo un altro concetto ritengo oggi molto importante e cioè che il territorio deve essere sempre premiato dalla nostra presenza. La ristorazione ha un ruolo decisamente di rilievo nel nostro paese e questo ruolo è il tessuto culturale non solo nostro che lavoriamo in cucina e di chi mangia, ma anche di tutte le persone che si specializzano per diventare cuochi e camerieri. Se la gente è disposta a fare chilometri per fare un’esperienza da noi, vuol dire che in qualche modo noi la condizioniamo ed è perciò necessario e imprescindibile carpire i valori del luogo in cui siamo presenti per poi trasmetterli.
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